TESTAMENTO BIOLOGICO

 

F O N D A Z I O N E  U M B E R T O  V E R O N E S I

 

Il testo integrale si può scaricare gratuitamente dal sito:

www.fondazioneveronesi.it

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Testamento biologico

Riflessioni di dieci giuristi

Prefazione di Umberto Veronesi

 

 

 

 

Sommario

 

     

Prefazione

di Umberto Veronesi

 

 

     

Introduzione

di Maurizio de Tilla

 

 

    

L’autonomia decisionale della persona alla fine della vita

di Salvatore Patti

 

 

     

La scelta del testamento biologico

di Pietro Rescigno

 

 

     

Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche

di Guido Alpa

 

 

     

Scelte di fine vita

di Lorenzo D’Avack

 

 

     

Efficacia del testamento biologico e ruolo del medico

di Luigi Balestra

 

 

     

Il testamento biologico: perché?

di Rossana Cecchi

 

 

     

Stato vegetativo permanente e sospensione dei trattamenti medici

di Gilda Ferrando

 

 

     

Quali strumenti per attuare le direttive anticipate?

di Michele Sesta

 

 

     

Il silenzio della legge e il testamento di vita

di Diana Vincenti Amato

 

 

     

“Testamento per la vita” e amministrazione di sostegno

di Giovanni Bonilini

 

 
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Prefazione

di Umberto Veronesi

 

Il tema della morte è molto impopolare per chiunque lo tratti.  Ogni volta che mi trovo ad affrontarlo – e la mia professione mi porta a farlo forse più spesso di altri – come medico, come scienziato o semplicemente come uomo, sono consapevole che può essere lacerante per la sensibilità di molti perché è difficile accettare che si spenga la vita che amiamo, o dovremmo amare, più di ogni cosa e che rappresenta il nostro bene supremo. Ma ogni volta penso anche che è un tema che non si può nascondere, ignorare o mistificare. Credo sia utile una presa di coscienza e sia necessario un dibattito leale e civile e il più possibile partecipato. Nell’antica Grecia, i problemi della vita e della morte si discutevano nell’agorà, la piazza, e io credo che sia importante che la società del terzo millennio trovi un’agorà in cui confrontarsi. In fondo, non c’è argomento che ci riguardi tutti indistintamente più da vicino.

“Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti un enorme turbamento”, così inizia e così finisce il più recente capolavoro di Josè Saramago. Io vedo la morte come il grande scrittore: è la norma della vita, la naturale conclusione di ogni processo vitale, una fase del grande disegno biologico a cui apparteniamo. E per questo penso anche che il morire faccia parte di un corpus fondamentale di diritti individuali: diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, diritto alle cure mediche, diritto a una giustizia uguale per tutti, diritto all’istruzione, al lavoro, alla procreazione responsabile e all’esercizio di voto. E se, come dice Luca Goldoni, noi vogliamo avere il diritto di andarcene appena viene il buio “decidendolo ora, quando la luce è ancora accesa” l’unico modo è esprimere pubblicamente questo desiderio. Questo è il principio fondante della “volontà anticipata” chiamata anche “biocard”, “testamento biologico”, “carta di autodeterminazione “ e nei Paesi anglosassoni, con la definizione più forte, living will.

In Italia il testamento biologico non ha valore giuridico come espressione di volontà, ed è preso in considerazione solo attraverso un passaggio che è anche deontologico, vale a dire se i medici curanti ravvisano nelle terapie che dovrebbero essere praticate il carattere di “cure inappropriate”, in quanto il malato non può clinicamente guarire. Viene introdotto quindi un criterio discrezionale – la decisione di sospendere le cure può cambiare da medico a medico – e quindi si avverte l’esigenza di una legge che tuteli l’inalienabile diritto del malato a decidere come morire. Qualche iniziativa è stata presa in questo senso. Nel 2001 il nostro Paese ha ratificato la convenzione di Oviedo del 1997 che stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la propria volontà saranno tenuti in considerazione”. Inoltre, secondo il Comitato per la Bioetica, “le direttive anticipate potranno essere scritte su un foglio firmato dall’interessato, e i medici dovranno non solo tenerne conto, ma dovranno anche giustificare per iscritto le azioni che violeranno tale volontà”. Ma a mio giudizio questo ancora non basta. I tempi sono maturi perché si passi dal piano etico a quello giuridico perché si tratta di rispettare il diritto di ogni cittadino a decidere in autonomia e libertà il proprio futuro, soprattutto nel caso si realizzasse la sfortunata condizione di impossibilità e incapacità di esprimere la propria volontà. Si tratta quindi non solo di salvaguardare il principio dell’autodeterminazione, ma anche e soprattutto di proporre alla popolazione giovane il tema difficile, ma fondamentale, del termine della vita. Infatti buona parte dei casi in cui non è possibile esprimere la propria volontà riguarda proprio persone giovani, in condizione di danno cerebrale da trauma per incidenti automobilistici o motociclistici. Il testamento biologico assume quindi un valore profondamente educativo perché obbliga gli adolescenti e i giovani adulti ad affrontare i temi esistenziali, a dibatterli e a interrogare se stessi su come ciascuno vorrebbe concludere il proprio ciclo biologico, nel caso che tale evento grave si realizzasse.

Questo dibattito non può che essere utile alla formazione di una personalità consapevole e cosciente non solo sul grande tema dell’autonoma decisione sul proprio progetto di vita, ma anche sul problema del consenso informato alle terapie mediche, di cui il testamento biologico è una logica estensione.  Il consenso informato è una grande conquista etica dei nostri tempi perché permette al cittadino che necessita di terapia di riappropriarsi della decisione se e a quali cure sottoporsi.  Non dimentichiamoci che il grande movimento popolare olandese che ha condotto alla legge sull’eutanasia è nato, ormai vent’anni fa, quando la popolazione ha potuto constatare che i moderni mezzi della medicina possono prolungare artificialmente la vita, opponendosi alla sua conclusione naturale per giorni, per mesi o per anni. Poiché la decisione di come e quando prolungare con le nuove tecnologie l’assistenza è completamente nelle mani dei medici, le persone più illuminate della cultura olandese (il movimento era iniziato negli anni Settanta dopo la pubblicazione del libro di Van der Berg Medical Power and Medical Ethics) chiesero a gran voce che le singole persone potessero riappropriarsi della decisione se e quando tralasciare o sospendere la cura. Il movimento europeo a favore del testamento biologico è figlio di questo movimento civile, che vuole, in una società culturalmente evoluta, riaffermare il principio dell’autodeterminazione e del consenso informato, da redigere anticipatamente prima che un danno cerebrale impedisca la sua consapevole espressione.

 

 

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Introduzione

di Maurizio de Tilla

 

La presente pubblicazione sul “Testamento biologico”, che segue il volume sulla “Fecondazione assistita”, è curata dal Comitato “Scienza e Diritto” della Fondazione Umberto Veronesi.  Hanno collaborato alcuni tra i più insigni giuristi delle materie civilistiche del nostro Paese: Salvatore Patti, Pietro Rescigno, Guido Alpa, Lorenzo D’Avack, Luigi Balestra, Rossana Cecchi, Gilda Ferrando, Michele Sesta, Diana Vincenti Amato, Giovanni Bonilini.

Attraverso il testamento biologico e attraverso la compilazione di direttive anticipate, un individuo può liberamente indicare i trattamenti sanitari che vuole ricevere e quelli cui intende rinunciare quando non sarà più in grado di prendere decisioni autonomamente. Può, inoltre, indicare un suo fiduciario che, in tali situazioni, agisca come decisore sostitutivo. Facendo proprie le preferenze e i valori del testatore biologico, tale decisore dovrà chiedersi se questi avrebbe voluto che la sua vita fosse prolungata in quella situazione oppure no. Solo nel caso in cui dovesse mancare ogni informazione su ciò che la persona avrebbe voluto si dovrebbe scegliere in base a quel che appare il miglior suo interesse nella situazione data.

Con il testamento biologico la scelta di fine vita viene intimamente collegata alle dichiarazioni anticipate di trattamento.

Denominazione questa che, unitamente ad altre analoghe (living will, direttive anticipate, testamento di vita), fa riferimento

ad un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato” (definizione data dal Comitato Nazionale per la Bioetica).

Da questa definizione si può ricavare da subito che è errato ritenere che le dichiarazioni anticipate implichino di per sé l’ammissibilità dell’eutanasia. Le dichiarazioni e l’eutanasia rientrano nella vicenda di fine vita, ma sono due problemi diversi, logicamente indipendenti e vanno trattati separatamente.  Le dichiarazioni anticipate servono a dare indicazioni in merito alla volontà del paziente, utilizzabili quando questi non può far valere di persona le proprie scelte. In questo senso esse sono uno strumento dell’autonomia dei malati e non hanno nessuna implicazione eutanasica necessaria. Esse possono prevederla (salvo gli effetti leciti e legittimi di tale previsione), ma possono anche includere precise clausole di esclusione dell’eutanasia, anche qualora essa fosse legislativamente riconosciuta. Così come potrebbero contenere indicazioni di una prosecuzione delle cure al di là delle cautele suggerite al medico affinché si eviti l’accanimento terapeutico (Lorenzo D’Avack).

Ancor più drasticamente si è sostenuto che quando si parla di dichiarazioni di volontà anticipate non ci si riferisce all’eutanasia, perché non si richiede né il comportamento attivo di terzi per ottenere il risultato di mettere fine alla vita, né si richiede la passiva partecipazione di terzi, in quanto oggetto di tali dichiarazioni è il rifiuto del trattamento medico. Anche se cristallizzato nel tempo, tale rifiuto vale a esercitare il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che può consistere, nel caso di adulti, nell’esercizio negativo del diritto (Guido Alpa).

A prescindere dalle problematiche sull’eutanasia le dichiarazioni anticipate sono certamente un efficace strumento che rafforza l’autonomia individuale e il consenso informato nelle scelte mediche o terapeutiche, tanto più che grazie alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 1 e 3) e alla Convenzione sui diritti dell’Uomo e la biomedicina (artt. 5, 6 e 9), questi principi acquisiscono nuovo e maggior rilievo, non soltanto coinvolgendo i doveri professionali del medico e la legittimazione dell’atto medico, ma dando sostanza al diritto del cittadino all’integrità della persona e al rispetto delle sue decisioni.

Che il “testamento biologico” possa ammettersi, ed essere considerato valido, nel nostro ordinamento è domanda che può ricevere una positiva risposta già sotto il profilo della liceità degli atti di disposizione del corpo e dell’integrità personale che rispettino i limiti di legge (nel senso che non ne derivi una diminuzione permanente dell’integrità e non si abbia lesione dell’ordine pubblico e del buon costume), e altresì la tutela della privacy e del potere di autodeterminazione in una materia che tocca profondamente la libertà e il destino della persona (Pietro Rescigno).

Vale qui la pena di ricordare l’intervento del Comitato Nazionale per la Bioetica (18 dicembre 2003) con il quale si è affermato che le “dichiarazioni anticipate di trattamento” si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente. Le dichiarazioni possono essere intese sia come un’estensione della cultura che ha introdotto, nel rapporto medico-paziente, il modello del consenso informato, sia come spinta per agevolare il rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere.

Devo in limine segnalare che l’istituto giuridico del “testamento biologico” – che costituisce una forma avanzata di civiltà giuridica nel senso di una progressiva valorizzazione del consenso informato – non è presente nel nostro Paese, nonostante la presentazione di diversi disegni di legge da parte dei parlamentari Tomassini, Acciarini, Ripamonti, Del Pennino, Benvenuto e altri.

Mi corre, inoltre, l’obbligo di segnalare che gli autori del presente volume curato dal Sole 24 ORE hanno affrontato obiettivamente – anche con tesi in contrasto – l’argomento in relazione alla possibile previsione e alle modalità di attuazione del testamento biologico.

Uno dei principali problemi è che, nell’attualità, il progresso della tecnologia medica ci impone di prendere decisioni che non eravamo obbligati a prendere qualche tempo fa. E talvolta le decisioni andrebbero prese quando non si è, per incapacità, in grado di prenderle.

Su questa preliminare osservazione vi è da segnalare che secondo un noto bioetico1, la sospensione o la mancata somministrazione di terapie di prolungamento della vita sono un normale esercizio dell’attività medica e non equivalgono all’eutanasia o al suicidio medico assistito. In quest’ambito viene, tra l’altro, in evidenza il concetto di futilità medica.  Per futilità si intende una terapia che non è in grado di portare un cambiamento fisiologico, ma anche una terapia che non è in grado di portare miglioramenti alla qualità della vita.

Il ricorso al criterio della futilità del trattamento è usato frequentemente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Alla futilità si ricorre generalmente quando il medico e i familiari concordano di non utilizzare più una particolare terapia soprattutto quando si tratta di supporto artificiale di mantenimento in vita. In molti casi il ricorso a questo criterio è stato utilizzato come difesa contro l’accusa di omicidio o di terapie di mantenimento in vita.

In molti casi la terapia del mantenimento in vita viene continuata contro la volontà del paziente, in circostanze talmente gravi da far pensare che si stia negando al malato una morte dignitosa, prolungandogli una sofferenza ormai insostenibile.

È, quindi, fuorviante parlare di “lasciar morire” quando si sottrae il paziente terminale a un trattamento ormai inutile. In alcuni casi, infatti, il medico si trova senza alternative. L’espressione “l’ho lasciato morire” avrebbe senso solo se vi fosse stata una qualunque possibilità di mantenere il paziente in vita, ma quando la morte è ineluttabile non si può più scegliere tra la vita e la morte; l’unica scelta possibile è come il paziente deve morire2.

Nello scritto pubblicato nel presente volume Diana Vincenti Amato incalza il ragionamento sulle esigenze delle direttive anticipate sul trattamento sanitario con interrogativi che sono alla base del testamento di vita.

Come accertare la “vera” volontà del paziente quando è in condizioni fisiche e psicologiche tali che altra sarebbe la sua volontà in condizioni diverse? Quale peso dare alla volontà espressa al suo posto, o in conflitto con le sue, dai parenti più stretti? Esiste uno standard al quale fare riferimento per valutare la ragionevolezza di certe scelte, sia in ordine al tipo di intervento terapeutico che si è disposto ad affrontare, sia in ordine alla “qualità della vita” che si è disposti ad accettare?

Il testamento di vita può rispondere a questi interrogativi con l’indicazione di alcuni limiti o incentivi finalizzati a un preventivo consenso o dissenso al trattamento sanitario.

Non è da trascurare il rilievo che le discussioni sul peso morale da attribuire a eventuali atti o omissioni che rendono la vita relativamente più breve, oppure le discussioni sulla distinzione tra terapia straordinaria e ordinaria, poco importano ai fini della considerazione delle alternative per il trattamento di ammalati terminali. Bisogna dire chiaramente che “sospensione della terapia” non è sinonimo di “cessazione di ogni trattamento”. Se viene inteso correttamente, il concetto capta quegli aspetti che rientrano nel buon esercizio della pratica medica, riconoscendo che vi sono stadi nei quali il processo di morte dovrebbe venir reso più “sostenibile” per il paziente. C’è un ampio consenso sul fatto che non vi sia alcun imperativo di ordine etico che imponga di sottoporre un paziente a ripetuti tentativi di rianimazione, a un futile regime di alimentazione introvenosa, a dialisi, al mantenimento farmaco-dipendente della pressione sanguigna, a profilassi antibiotica, o al controllo elettrocardiografico del battito cardiaco, al mero fine di tenere in vita il malato terminale per un altro paio di giorni o una settimana. La cosa più importante da fare, in questi casi, è adoperarsi per dare sollievo al malato.

Capita in medicina, ad esempio durante il trattamento di pazienti allo stadio terminale della malattia (o di neonati anencefalici senza speranza), che il trattamento in preparazione della morte sia l’unico intervento moralmente accettabile, mentre infliggere una qualsiasi forma di terapia per mantenere in vita il paziente nelle condizioni in cui versa appare moralmente ingiustificato.

Numerose forme di sospensione della terapia, anche a rischio di mettere in pericolo la sopravvivenza del paziente, sono pur sempre compatibili con i principi di buona pratica della medicina e con il rispetto dell’individuo. Quando vengono rivolte nella giusta direzione, le decisioni per la sospensione della terapia dovrebbero poter soppiantare gli argomenti sull’eutanasia, in quanto il contenuto morale essenziale della questione si incentra su quale forma di terapia sia appropriata dal punto di vista etico, e non sul mero interrogativo se far continuare la vita sia eticamente appropriato. Ma se l’eutanasia è incompatibile con i principi del buon esercizio della pratica medica, infliggere una terapia per il mantenimento in vita con il solo risultato di aumentare la sofferenza del paziente è altrettanto deplorevole.

Se l’argomento più convincente a favore dell’eutanasia è alleviare la persona da inutili sofferenze, gli oppositori dell’eutanasia sbagliano nella difesa a oltranza del mantenimento in vita di un paziente, anche a costo di infliggergli terribili sofferenze.

Per comprendere meglio i termini del dibattito provo a riportare alcune argomentazioni di David Lamb3, secondo il quale la linea che divide l’interruzione della terapia dall’eutanasia risulta spesso poco chiara a causa della confusione che si viene a creare nel corso della discussione sul rapporto tra azioni che arrecano la morte (far morire) e le omissioni che portano alla morte (lasciar morire). Così molti simpatizzanti dell’eutanasia descrivono la distinzione fra eutanasia attiva e passiva, far morire e lasciar morire, come moralmente irrilevante, e su questa linea proseguono, equiparando sotto l’aspetto morale l’eutanasia all’interruzione della terapia di sostegno vitale. Il puro richiamo alle conseguenze dei vari tipi di azione, astratto dal contesto nel quale la terapia viene applicata, negata o interrotta, servirebbe solo a farci capire che tale distinzione è in realtà squisitamente semantica. Al contrario, attraverso uno sguardo più attento al contesto nel quale vengono prese le decisioni riguardo alla terapia da effettuare, si evince che molti argomenti ed esempi che vengono citati per far ricadere l’attenzione sulle conseguenze di un atto o omissione sono di scarso rilievo morale, rappresentando spesso e volentieri l’intrusione forzata di un semplicistico dogma filosofico nell’etica medica.

Esistono motivi convincenti perché l’atto col quale si nega l’applicazione di una terapia di mantenimento in vita e l’atto col quale si causa il decesso del paziente vengano distinti. È importante avere la consapevolezza che la discussione intorno al tipo di terapia che si nega o si applica appartiene a una categoria morale ben diversa dagli argomenti relativi all’atto di “consentire” o “causare” la morte.

Nell’ambito delle tesi che favoriscono l’introduzione negli ordinamenti giuridici di norme che disciplinano il “testamento biologico” è agevole affermare che ogni persona ha diritto alla non interferenza sulle scelte che riguardano gli aspetti più intimi della sua vita. Le scelte relative alla salute sono fondamentali perché concernono il valore centrale del benessere del paziente.

La salute e il prolungamento della vita non sono infatti dei valori in sé, ma solo in quanto facilitano il perseguimento del proprio piano di vita: perciò, “in molti casi la decisione di quale tra i trattamenti alternativi, compresa la scelta di nessun trattamento, promuova meglio il benessere di un paziente non può essere determinata oggettivamente, indipendentemente dalle preferenze e dai valori del paziente stesso”. In prossimità della morte sono particolarmente forti, da un lato, il pericolo di andare incontro a sofferenze incoercibili, dall’altro quello di perdere il controllo su di sé e di vedere perciò compromessa la propria dignità; dunque, l’affermazione di un “diritto di morire” equivale a riconoscere a individui autonomi, in possesso delle proprie facoltà, la libertà di decidere che la loro qualità di vita è così fortemente compromessa da rendere privo di senso continuare a vivere.

Con il presente lavoro si è tentato di dare una risposta agli innumerevoli quesiti che riguardano il testamento biologico e le direttive anticipate che costituiscono, secondo la maggior parte degli autori (salvo alcuni dissensi) un modo corretto per risolvere alcuni problemi che toccano marginalmente i confini dell’eutanasia.

Con lo scritto che si pubblica, Gilda Ferrando tenta di dare una risposta a importanti quesiti: “Quando una persona si trova in stato vegetativo permanente è lecito chiedere di interrompere l’alimentazione e l’idratazione forzata? Dato che il malato è in una condizione di perdita irreversibile della coscienza c’è qualcuno che può fare questa richiesta al posto suo?”. Questi sono alcuni dei drammatici interrogativi che i casi di Eluana Englaro e di Terry Schiavo pongono all’opinione pubblica. Gilda Ferrando dà una precisa risposta collegandosi alla rilevanza assunta dal consenso informato del paziente anche con le direttive anticipate. Deve, infatti, essere rispettata la scelta del paziente di non intraprendere certe terapie o di sospendere quelle già iniziate.  Il Codice di deontologia medica prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti.  Se il paziente non è in grado di esprimersi, la regola deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino al quando lo ritenga “ragionevolmente utile”.

Allo stato attuale della legislazione italiana, quando vi sia una perdita irreversibile della coscienza non vi è altra soluzione che quella di tener conto delle direttive anticipatamente espresse, secondo quanto dispongono la Convenzione europea di bioetica (art. 9) e il Codice di deontologia medica (art.  34). È vero che né l’uno né l’altro testo attribuiscono un valore vincolante alle direttive anticipate. Di qui il valore giuridico e vincolante da attribuire con legge al testamento biologico.  In senso favorevole e positivo Luigi Balestra asserisce che il cosiddetto testamento biologico è volto a colmare, sia pure in modo parziale, la frattura che la sopravvenuta incapacità dell’individuo determina nel rapporto con il sanitario e rappresenta, sotto questo profilo, l’approdo logico del processo di progressiva valorizzazione del consenso informato. Balestra osserva puntualmente che sembra fuorviante sostenere che nel dibattito sul testamento biologico la vera posta in gioco sia la legalizzazione dell’eutanasia. L’eutanasia è certamente e fortemente presente nel dibattito, ma la vera posta in gioco è più ampia e si identifica col tentativo di rivestire di nuovi contenuti la relazione medico-paziente attraverso un processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente. In una tale prospettiva, l’eutanasia non è più centrale rispetto alla discussione sulla meritevolezza di tutela del testamento biologico e si colloca, più opportunamente, nel contesto dei limiti cui la “volontà di testatore” deve soggiacere al cospetto di un ordinamento che concepisce la vita umana come bene indisponibile.

Michele Sesta osserva che appare di piena evidenza l’impossibilità di prescindere, in tema di scelta concernente la salute, dalla volontà dell’interessato, che dovrà essere rispettata tanto nel caso in cui sia volta a ottenere un trattamento terapeutico, quanto nella differente ipotesi in cui sia finalizzato al rifiuto di cura.

Giovanni Bonilini aggiunge con puntualità che il rifiuto del trattamento sanitario non si può ritenere capace di innestare la procedura di interdizione o di amministrazione di sostegno.  È di assoluta gravità che si pretenda di sovrapporre la decisione di un’altra persona a quella che ha deciso altrimenti: chi rifiuti l’amputazione di un arto, preferendo lasciarsi morire, non può vedersi raggirato dall’attivazione di uno strumento che legittimi altri a decidere al posto suo, ottenendosi un consenso al trattamento da chi sia stato tutore o amministratore di sostegno.

Rossana Cecchi richiama la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che, al titolo I, stabilisce che la dignità umana è inviolabile e che ogni individuo ha diritto alla vita e alla propria integrità psico-fisica. La Carta ha, quindi, sentito la necessità di stabilire esplicitamente che “deve essere rispettato” in ambito medico il consenso libero e informato dalla persona interessata, secondo le modalità definite della legge. Salvatore Patti ha giustamente sottolineato che si riscontra, in materia, un vuoto legislativo che solo in parte può essere colmato con il ricorso ad alcune norme dettate con riferimento a singola fattispecie oppure ai principi generali. Si riscontra tuttavia un’accresciuta sensibilità nei confronti dell’autonomia del paziente: nella prassi si perviene spesso a forme di collaborazione decidendo tra paziente terminale e medico, nell’ottica di una specie di alleanza terapeutica.  Patti non vede positivo l’istituto del testamento biologico sollevando alcune interessanti obiezioni. Ricordo, in proposito, che nel febbraio 1993 il Parlamento olandese è andato ben al di là del “testamento biologico” ammettendo formalmente la pratica dell’eutanasia, a condizione che si comprovi la richiesta “persistente” da parte del paziente.  In Olanda la procedura di autorizzazione all’eutanasia non prevede, infatti, il ricorso a direttive anticipate o alla delega, e solamente la richiesta puntuale da parte del paziente è legalmente ammessa.

Nei Paesi Bassi la definizione di eutanasia in diritto e in medicina corrisponde a una “interruzione della vita del paziente dietro sua personale richiesta attraverso l’intervento attivo del medico”. Il principio etico a fondamento di tale definizione sembra basarsi sul consenso libero e informato dell’individuo razionale. Nel diritto olandese esiste una peculiare dottrina la quale consente che alcune pratiche, sebbene non legittimate dal diritto scritto, vengano tollerate (gedogen) dai pubblici ministeri e dai magistrati. Questa dottrina permette che la pratica prenda corpo e si sviluppi grazie a un diffuso atteggiamento di tolleranza, per poi venire formalmente legalizzata.  Allora, quando si è formato il consenso intorno a un certo tipo di pratica, si fa approvare una legge che disciplini quest’ultima nei termini nei quali si è sviluppata. Questa prassi è marcatamente diversa dalla tendenza che si riscontra nel Regno Unito e negli Stati Uniti ad affrontare una problematica sociale direttamente con la legge, con la possibilità semmai di emendarla in un secondo momento a seguito della reazione del pubblico in merito. Va segnalato che in alcuni Stati americani si fa ricorso a una procura speciale, attraverso la quale il rappresentato nomina un procuratore affinché agisca per suo conto in un qualsiasi momento successivo alla perdita della propria capacità di autodeterminazione. Sotto taluni aspetti l’istituto del fiduciario per così dire “della salute” è un meccanismo che mette il paziente in grado di indicare al medico chi dovrebbe essere il proprio delegato o sostituto. Si ritiene che l’efficacia giuridica di tali strumenti sia superiore a quella del testamento di vita.  In alcuni Stati americani l’autorità del procuratore può, infatti, prevalere sulle obiezioni sollevate dai familiari. Accomunate in un’unica categoria, il “testamento di vita” e la “procura per la salute” rientrano nella categoria delle “direttive anticipate”.  Nel Regno Unito l’opinione dei giuristi è leggermente diversa da quella prevalente negli Stati Uniti. La Law Commission of England interpreta le “direttive anticipate” come decisioni anticipatorie, distinguendole dal testamento di vita che essa definisce come “la direttiva anticipata concernente il rifiuto di procedure per il mantenimento in vita nel caso eventuale di uno stadio terminale della malattia”. Ma tanto negli Stati Uniti quanto nel Regno Unito la legittimazione morale delle direttive anticipate consiste nel promuovere l’autonomia individuale, e sebbene il documento possa talvolta indicare la scelta di ricevere o meno specifiche forme di terapia, le direttive anticipate, secondo il senso comune, sono associate all’opportunità di rifiutare l’ultima terapia di fronte alla percezione del timore di un accanimento terapeutico, come del resto si evince da molte argomentazioni volte a promuoverle.

Per bilanciare i contenuti di questa breve e sintetica introduzione vorrei concludere con una magistrale espressione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, che facendo appello al “morire con dignità umana e cristiana” sottolinea che “l’uomo è uomo anche di fronte alla morte e nella morte stessa: questa da evento inevitabile è chiamata a divenire per l’uomo un fatto personale, un fatto da assumere e da vivere (vivere la morte!) da uomo, ossia coscientemente e liberamente, dunque responsabilmente. In questo senso, morire con dignità umana significa affrontare la morte con serenità e coraggio”.

A questo ispirato pensiero del Cardinale Tettamanzi (che affronta la questione sotto il profilo ontologico), Eugenio Lecaldano obietta che ben diverso è il quadro in cui la dignità del morire umano è collegata con la libertà della scelta del morente. In questo caso emerge ancora chiaramente quell’uso della nozione di dignità alternativo a quello appena richiamato, ovvero l’uso non più ancorato a una concezione ontologica di ciò che è la natura umana o di quella che è la vita propria della persona umana in generale, ma più peculiarmente a quelli che sono i tratti distintivi della vita individuale della persona della cui dignità o meno si tratta. Numerose sono le elaborazioni in questo senso, e ad esempio molte determinazioni le troviamo in una recente riflessione di Küng. Il problema – aggiunge Lecaldano – non è in generale quello della dignità della vita umana, ma piuttosto il punto è che ogni uomo tiene al rispetto della sua propria dignità e di quella altrui. Inoltre – rileva Küng – anche da una prospettiva teologica il cristiano può riconoscere che Dio “si attende dall’uomo libertà e responsabilità per la sua vita” e dunque “ha anche lasciato all’uomo che è in procinto di morire la responsabilità e la libertà di coscienza e di decidere il modo e il tempo della sua morte”8. Un modo di collegare la dignità del morire con il modo personale in cui ciascuno intende vivere questo decisivo passaggio della propria esistenza è stato ad esempio affermato come uno dei principi fondamentali della bioetica da Scarpelli9. La discussione più determinata, propria dei contesti bioetici, dell’uso della nozione di dignità fa emergere – secondo Lecaldano –chiaramente la necessità di connettere la valutazione in termini di dignità o umiliazione o degradazione a una considerazione più ampia e complessiva. Affrontando il problema sotto il profilo innovativo, Peter Singer, docente di filosofia morale, in Scritti su una vita etica10, parlando di “come rimpiazzare la vecchia etica”, osserva che il nuovo approccio alle decisioni concernenti la vita e la morte è molto diverso da quello vecchio. È importante rendersi conto che l’etica delle decisioni concernenti la vita e la morte è una parte dell’etica stessa. Affermare che un individuo abbia, in talune circostanze, un diritto a morire non significa certamente escluderlo dalla sfera dell’interesse morale.

 

 

 

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L’autonomia decisionale della persona alla fine della vita

di Salvatore Patti

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Mancanza di una disciplina di legge che garantisca l’autonomia della persona alla fine della vita

 

In Italia manca una normativa che riguarda l’autonomia privata della persona nella fase finale della sua esistenza. Fatta eccezione per alcune norme specifiche (ad esempio, in tema di trapianti) occorre quindi fare riferimento ai principi generali. All’assenza di una normativa specifica fa riscontro un dibattito dottrinale ricco e stimolante. Da tempo ci si chiede infatti se e in qual misura l’ordinamento consenta alla persona umana di disporre dei beni strettamente personali, dell’integrità psico-fisica ovvero della vita.

 

Le risposte, in genere, tengono conto del prudente atteggiamento assunto dal Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB). Questo comitato, del quale fanno parte alcuni giuristi (tra i quali i professori Francesco D’Agostino e Pietro Rescigno), ha espresso alcune raccomandazioni sul tema della “fine della vita umana”: ad esse occorre soprattutto fare riferimento per comprendere quale potrà essere l’evoluzione dell’ordinamento italiano nella materia in esame. Ordinario di Diritto Privato all’Università La Sapienza, Roma.

 

 

L’accanimento terapeutico

 

Il CNB muove dalla premessa che la morte non può essere considerata come un mero evento biologico o medico, essendo essa portatrice di un significato nel quale deve essere individuata la radice della dignità dell’essere umano. La morte assegna all’essere umano un compito morale, che è quello di trovare un senso che guidi e assicuri la sua libertà. Alla luce di questa visione di fondo della problematica, il CNB considera criticamente ogni ipotesi di accanimento terapeutico, che volendo prolungare indebitamente il processo irreversibile del morire si pone contro la consapevolezza del soggetto alla propria invincibile caducità. Il cosiddetto accanimento terapeutico viene definito come un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunge la presenza di un rischio elevato per il paziente di ulteriori sofferenze, in un contesto nel quale l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata rispetto agli obiettivi. Il concetto dell’inutilità si rinviene anche nell’art. 14 del Codice di deontologia medica (1998), che definisce l’accanimento terapeutico come “... ostinazione in trattamenti di cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato o un miglioramento della qualità della vita”. Viceversa non si configura un accanimento terapeutico in caso di terapie impegnative, complesse e costose che portino comunque un benessere del paziente.

 

 

Il living will

 

Forti perplessità sono state espresse anche con riferimento alle cosiddette direttive anticipate di trattamento, soprattutto quando esse assumono la veste di veri e propri testamenti di vita. Da un lato, infatti, si considera positivamente il tentativo di attribuire rilievo alla volontà del paziente anche oltre le sue possibilità biologiche di esprimerla, dall’altro si considera in termini negativi l’opinione di chi vorrebbe attribuire a tali direttive un carattere vincolante.

La Consulta di Bioetica, fin dal 1993, aveva tuttavia proposto l’adozione di regole tendenti a garantire il diritto della persona all’autodeterminazione in ordine a scelte terapeutiche predeterminate da far valere anche in caso di successiva impossibilità di esprimere un valido consenso o dissenso.  Una parte della categoria dei medici inquadrò tale iniziativa in un positivo processo di adeguamento della concezione della funzione del medico ai principi di autonomia decisionale del paziente. Nel 1999 è stata approvata la Carta dell’autonomia sino alla fine della vita, la quale prevede la possibilità di esprimere in anticipo la propria volontà sulle cure mediche per l’eventualità di una futura incapacità di decidere, redigendo una Carta di autodeterminazione ed eventualmente delegando una persona di fiducia ad assumere le opportune decisioni.

L’opinione negativa nei confronti del consenso anticipato esige viceversa la immediatezza del consenso informato e consapevole. Altrimenti, si afferma, rimane immutato l’obbligo del medico di intervenire per salvare la vita umana in pericolo, qualunque sia stato il pregresso – ma attualmente non verificabile – intento della persona. Scarso favore ha incontrato altresì l’idea – maturata negli Stati Uniti – del giudizio sostitutivo (substituted judgement), per i pazienti privi di autonomia decisionale, che avviene tramite la designazione di un delegato, il quale si assume la responsabilità delle decisioni cliniche sulla base della situazione oggettiva del paziente, ma anche delle preferenze del soggetto precedentemente espresse o comunque ricostruibili.  Su tale problematica si soffermano, nelle pagine seguenti, i saggi dedicati al ruolo nella materia in esame dell’amministrazione di sostegno. Il principio del consenso informato è stato peraltro recepito dal Codice italiano di deontologia medica (art. 32), e da alcuni anni ispira la giurisprudenza, secondo cui il consenso costituiscel’essenziale e imprescindibile legittimazione giuridica dell’atto medico, altrimenti suscettibile di essere valutato come reato (Cass. pen., Sez. IV, 12 luglio 1991).  La giurisprudenza è comunque costante nel ritenere che una eventuale desistenza terapeutica – sia pure preordinata nel living will – dalla quale derivi un danno alla salute o la morte del soggetto, anche nel caso di tempo più breve della prevedibile sopravvivenza, che sarebbe stata garantita dalle cure omesse, può configurare i reati della lesione personale (a titolo di colpa o di dolo) o dell’omicidio (colposo, doloso o preterintenzionale). Riassuntivamente può dirsi pertanto che esiste un estremo rigore della giurisprudenza italiana nei confronti dell’omissione terapeutica.

Alla legittimazione del living will sembra contrastare anche l’art. 5 del codice civile che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente.  D’altra parte la libertà del paziente di sottrarsi a un trattamento terapeutico – utile ma non obbligatorio per legge – trova fondamento nella norma della Costituzione in tema di salute (art. 32). Ma anche tale base normativa non viene considerata sufficiente per attribuire efficacia a un atto di volontà pregressa e non ripetibile a causa della sopravvenuta incapacità del soggetto.

Il rifiuto del paziente ha quindi sicura rilevanza soltanto fin quando egli sia cosciente e possieda la capacità di intendere e di volere. Scarso favore – come detto – incontra inoltre l’idea del conferimento a un “delegato” di un potere di guida del medico curante, affermandosi che quest’ultimo non può essere privato della libertà di scelta terapeutica che caratterizza la sua professione e che risulta garantita dal Codice italiano di deontologia medica (1998). La medicina – si dice – non può ridursi a una mera esecuzione di prestazioni a richiesta.Un’opinione intermedia – che appare preferibile – suggerisce di considerare il living will come un documento non vincolante ma orientativo, il quale consente di conoscere quali fossero i sentimenti e i desideri del paziente prima della perdita di conoscenza. A sostegno di tale tesi si osserva, tra l’altro, che le direttive della persona presentano in molti casi un carattere di astrattezza, dovuta soprattutto al lasso di tempo che intercorre tra il momento in cui esse vengono redatte e quindi l’effettiva situazione del soggetto, e la situazione reale di malattia in cui versa la persona quando la direttiva dovrebbe essere applicata. Si rileva inoltre che spesso il linguaggio adoperato in tali documenti presenta forti ambiguità, non essendo il paziente in grado di definire in modo corretto le situazioni cliniche in riferimento alle quali intende fornire direttive. In altri termini, ogni direttiva anticipata perde di significato quanto più è lontana nel tempo e quanto meno è espressa in modo specifico e informato.

L’eventuale trasposizione in termini giuridici della suesposta soluzione intermedia determinerebbe probabilmente delle difficoltà. Escludendo tuttavia che la legge possa considerare assolutamente vincolanti le direttive anticipate del paziente, il compito della norma giuridica dovrebbe essere quello di favorire la decisione anticipata del paziente nei casi che si prospettano drammatici e che sono a lui noti, lasciando peraltro al medico – obbligato a tener conto di tali decisioni anticipate –un certo margine di discrezionalità per la decisione clinica concreta.

 

Le cure palliative

 

Molta attenzione in tutti i Paesi è stata dedicata al problema delle cure palliative, che sarà trattato in modo approfondito nelle pagine successive.Il problema della medicina palliativa si pone quando la situazione patologica del paziente appare irreversibile ed è caratterizzata da particolari sofferenze del paziente e, in ultima analisi, quando il compito del medico consiste soprattutto nell’accompagnare il “processo del morire”.Le cure palliative vengono in genere valutate in terminimolto positivi, trovando il loro fondamento non nella pretesa illusoria di strappare il paziente alla morte – o addirittura semplicemente di rinviare questo momento – bensì nel proposito di non lasciarlo solo e di aiutarlo a vivere l’ultima fase della sua vita nel modo più umano possibile, sia dal punto di vista fisico che da quello spirituale.Soprattutto con riferimento ai cosiddetti malati terminali, le cure palliative vengono viste come uno dei compiti della medicina moderna, che concepisce la cura del paziente in senso globale e quindi non soltanto fisico. Si auspica pertanto che lo studio delle metodiche delle cure palliative trovi sempre maggiore spazio nella formazione del personale sanitario.  Anche in Italia la tendenza politico-legislativa sembra favorevole a uno sviluppo e a una intensificazione delle cure palliative.  Il numero di pazienti sottoposto a tale tipo di cure è considerevolmente aumentato negli ultimi anni, sia per la maggiore ricorrenza di malattie che comportano una indicazione di cure palliative (cancro, Aids, Alzheimer, sclerosi multipla) sia per il prolungamento del tempo medio di sopravvivenza.  Si osserva, tra l’altro, che il mantenimento di un’accettabile qualità della vita, conseguibile con il ricorso alle cure palliative, anche nella sua fase terminale, rappresenta il migliore antidoto alle richieste di eutanasia. È infatti un dato di comune esperienza quello secondo cui la richiesta di eutanasia è spesso accompagnata da condizioni di abbandono terapeutico.  Il senso di solitudine e di abbandono del paziente e quindi la sua decisione di “resa” sono collegati alla sospensione delle cure.

Le cure palliative non limitano in genere la coscienza del paziente. Si ritiene comunque che nei casi in cui non siano possibili altre soluzioni terapeutiche, sia lecito lenire il dolore del paziente anche a costo di limitare il suo stato di coscienza, dopo avere informato il paziente, avere ottenuto il suo consenso e avergli lasciato il tempo necessario per adempiere alle volontà finali.

Le cure palliative vengono in genere realizzate nel domicilio del paziente, garantendo con costi ridotti la migliore assistenza possibile. Il paziente continua infatti a vivere nel proprio ambiente, rispettando le sue abitudini, e spesso godendo dell’affetto dei propri parenti.

In questo contesto occorre ricordare la rilevante attività svolta da numerose associazioni di volontariato che si prodigano nel campo dell’assistenza dei sofferenti. L’attività delle associazioni di volontariato è stata favorita, tra l’altro dal punto di vista fiscale, con la legge n. 266 del 1991, che ha rappresentato il primo intervento organico del legislatore italiano in materia di non profit organization.

 

I pazienti in stato vegetativo permanente

 

Un vuoto normativo si riscontra in Italia anche per quanto concerne i pazienti in stato vegetativo persistente (Persistent Vegetative State). Con tale espressione si indicano i pazienti nei quali si è verificata la distruzione (non irreversibile) della maggior parte delle voci sopratentoriali, in assenza di lesioni del troncoencefalo. Questa situazione si distingue pertanto dalla cosiddetta morte cerebrale (brain death), che presuppone invece una lesione completa e irreversibile di tutto l’encefalo.  Al riguardo si discute quale debba essere la rilevanza da dare alla volontà del paziente che abbia espresso un suo parere in merito prima del verificarsi della situazione descritta.  Un gruppo di studio della Società Italiana di Neurologia ha proposto di considerare lecita la sospensione di ogni terapia di sostegno vitale, incluse la nutrizione e idratazione artificiali, motivando tale parere con la sostanziale identificazione di condizione di Persistent Vegetative State e morte della persona.  Tale conclusione è stata criticata dal Comitato Nazionale per la Bioetica, il quale osserva tra l’altro che l’ordinamento giuridico vigente non prevede alcun criterio “corticale” per l’accertamento della morte.

Nessuna menzione dei pazienti in stato vegetativo persistente si riscontra invece nel Codice di deontologia medica. Esso afferma comunque che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente” (art. 32) e che “in caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve per seguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile” (art. 37). Quest’ultima norma stabilisce inoltre che “il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”.

Conviene altresì ricordare che nell’ordinamento italiano il principio giuridico sul quale, attualmente, è basato l’accertamento della morte è quello secondo cui la perdita irreversibile e completa della funzionalità dell’encefalo equivale alla morte dell’intero organismo (legge 29 dicembre 1993, n. 578, “Norme per l’accertamento e la certificazione di morte”).

 

L’eutanasia

 

Per quanto concerne il problema dell’eutanasia, l’opinione del Consiglio Nazionale per la Bioetica è stata di segno contrario rispetto a un intervento del legislatore. Infatti, pur prendendo atto della drammatica situazione di molti malati terminali, è stata ritenuta necessaria una valutazione del singolo caso e sono state considerate pertanto poco opportune norme di carattere generale e astratto finalizzate alla legalizzazione di atti eutanasici. Si osserva comunque che nel linguaggio comune vengono accomunate sotto la denominazione di eutanasia delle fattispecie diverse e si precisa quindi che con tale termine deve intendersi “l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta”. Ciò premesso, le valutazioni del CNB possono così riassumersi: viene considerato lecito – e degno di essere osservato da parte del medico – il rifiuto del paziente di sottoporsi a una terapia, purché tale manifestazione di volontà sia libera, attuale e consapevole. Inoltre si considera doverosa la sospensione da parte del medico di ogni “accanimento terapeutico”.  Al contrario si considera illecita ogni forma di eutanasia operata su un paziente non consenziente come pure di eutanasia eugenetica o su neonati malformati. L’atteggiamento contrario a un intervento del legislatore viene motivato sulla base dell’impossibilità di disciplinare in modo adeguato le singole situazioni che presentano caratteri irripetibili. Ci si interroga in particolare sulla rilevanza giuridica che dovrebbe avere il mandato conferito dal paziente al medico. Se si dovesse stabilire che esso non è sindacabile da parte del medico, questi sarebbe tenuto a eseguirlo anche

quando, secondo la sua coscienza, non ritiene sussistenti tutte le circostanze di fatto che il paziente indica – o aveva indicato

come giustificanti l’eutanasia.In questo caso l’intervento eutanasico si porrebbe in contrasto non soltanto con la deontologia medica ma anche con il convincimento del singolo medico. Viceversa, se si dovesse ritenere il mandato sindacabile, il paziente non sarebbe sicuro che il proprio atto di volontà venga rispettato dal medico. Per altri versi il medico avrebbe un potere di vita e di morte sul paziente, e si ritiene che, se questo potere venisse previsto dalla legge, si altererebbe l’identità e la funzione della professione medica.

 

Altre preoccupazioni riguardano, infine, il probabile indebolimento della coscienza sociale del valore della vita, la possibilità di tragici abusi e la maggiore possibilità di tendere verso forme di eutanasia non volontaria.Un’indicazione equilibrata si riscontra nell’art. 36 del Codice di deontologia medica, secondo cui: “in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta e pervenute alla fase terminale, il medico può limitare la sua opera, se tale è la specifica volontà del paziente, all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenza, fornendogli i trattamenti appropriati e conservando per quanto possibile la qualità della vita”.

 

 

La sperimentazione

 

Anche in tema di sperimentazione sull’uomo manca in Italia una normativa specifica. Da ciò deriva incertezza circa i requisiti e i limiti di liceità della sperimentazione che – pure nel caso di una persona in fin di vita – non deve scontrarsi, in primo luogo, con l’ordine pubblico, il buon costume e con il divieto specifico di atti di disposizione del proprio corpo che comportino una diminuzione permanente dell’integrità fisica (art. 5 c.c.).Sia con riferimento alla sperimentazione puramente scientifica sia con riferimento a quella terapeutica è considerato inderogabile il principio del consenso consapevole della persona.  Infatti, anche se il fondamento di liceità della sperimentazione umana viene ravvisato nella solidarietà sociale, si ritiene prevalente l’interesse della tutela della persona e risulta quindi necessario un suo atto di volontà.

Soltanto nel caso di malati incurabili, cioè quando il trattamento sperimentale appare l’unico possibile tentativo per sottrarli alla morte, si richiama il principio dello stato di necessità e si prescinde dal consenso della persona, non tuttavia dal suo eventuale rifiuto. Conseguentemente, la sperimentazione si considera lecita, ricorrendo le suddette circostanze, quando il soggetto non è in grado di prestare il suo consenso perché in stato di incoscienza o perché interdetto o comunque incapace di intendere e di volere. Condizione dell’intervento è che il trattamento venga intrapreso per il bene del paziente, poiché altrimenti – in mancanza del consenso – la considerazione del progresso della scienza e della tutela della salute collettiva deve cedere di fronte al rispetto dell’integrità fisica della persona.

La necessità del consenso “informato” e consapevole rappresenta pertanto la regola generale nell’ordinamento italiano.  Vengono rifiutate le teorie secondo le quali il consenso alla sperimentazione, soprattutto nel caso di malattie gravi, sarebbe compreso nel generico consenso con cui il paziente si affida alle cure del medico.L’attività di sperimentazione si distingue infatti da quella

terapeutica per l’incertezza del risultato e per il maggiore rischio ad essa collegato. Vengono altresì respinte le tesi che ammettono la sperimentazione su persone gravemente malate,in assenza di consenso, quando l’informazione in base alle circostanze si reputi contraria agli interessi del paziente che non è a conoscenza della natura e della gravità della malattia.  Si respinge infine la configurabilità di un consenso presunto nel caso di malati non in grado di essere interpellati. Nel consenso presunto viene infatti ravvisata una finzione destinata a coprire la mancanza di una dichiarazione di volontà, che può essere superata soltanto nei casi in cui ricorre uno stato di necessità (art. 2045 c.c.).

 

 

La normativa sui trapianti

 

La materia dei trapianti è stata da ultimo disciplinata in Italia con la legge 1 aprile 1999, n. 91. L’art. 4 n. 1 di questa legge stabilisce che “i cittadini sono tenuti a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte”. Lo stesso articolo stabilisce inoltre che i cittadini devono essere informati sul fatto che “la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione”. L’art. 4 n. 3 prevede che “per i minori di età la dichiarazione di volontà in ordine alla donazione è manifestata dai genitori esercenti la potestà”. Se i genitori non sono d’accordo, la donazione non è possibile. I soggetti incapaci di agire non possono donare neanche mediante dichiarazione di volontà dei soggetti incaricati della loro tutela.

Il prelievo non è tuttavia consentito se, “entro il termine corrispondente per l’osservazione ai fini dell’accertamento della morte, sia presentata una dichiarazione autografa di volontà contraria al prelievo del soggetto di cui sia accertata la morte” (art. 4 n. 5). Pertanto la persona, purché in grado di scrivere, può modificare la propria volontà in ordine alla donazione dei suoi organi, fino agli ultimi momenti della vita.

Riassumendo, il prelievo di organi e di tessuti, successivamente alla dichiarazione di morte della persona, è consentito in due ipotesi:

a)         nel caso in cui dai dati inseriti in un apposito sistema informativo ovvero dai dati registrati sui documenti sanitari personali risulti che il soggetto abbia espresso una dichiarazione di volontà favorevole al prelievo (successivamente non revocata);

b)         nel caso in cui dai dati risulti che il soggetto sia stato informato e non abbia espresso alcuna volontà, salvo che venga presentata una dichiarazione autografa di volontà, del soggetto di cui sia accertata la morte, contraria al prelievo.  Nel secondo caso si configura pertanto il cosiddetto silenzioassenso, da alcuni criticato poiché un istituto nato per sopperire all’inerzia della pubblica amministrazione è stato in tal modo utilizzato in una materia che riguarda interessi essenziali della persona umana. Nella scelta compiuta dal legislatore viene visto il trionfo di una concezione pubblicistica che considera il corpo umano, dopo la morte, come un bene disponibile per la comunità e pertanto non considera indispensabile un’espressione esplicita della volontà del singolo.

 

Un nuovo istituto in tema di limitata capacità della persona

 

L’autonomia del paziente non può manifestarsi nel caso in cui la persona sia stata dichiarata incapace di agire. L’ordinamento italiano per oltre mezzo secolo ha previsto due istituti – l’interdizione e l’inabilitazione – che sia pure in modo più o meno grave pongono la persona in una situazione di incapacità.  L’esperienza ha dimostrato che i suddetti istituti, destinati a tutelare la persona rispetto al compimento di atti negoziali di rilevanza patrimoniale contrari ai suoi interessi, finiscono per porla in una situazione di incapacità. Tale situazione di incapacità esclude o limita gravemente l’autonomia del paziente nella fase finale della vita.

La consapevolezza che i suddetti istituti, ideati per proteggere la persona, hanno finito molto spesso per privarla di ogni autonomia decisionale, in alcuni casi a seguito dell’iniziativa di parenti interessati soprattutto alla sorte del patrimonio, ha spinto all’approvazione di una legge che ha introdotto nel codice civile un terzo istituto, quello della “amministrazione di sostegno” che mira a tutelare persone impossibilitate a provvedere alla cura dei propri interessi con la minore limitazione possibile della loro capacità. Con l’introduzione della nuova figura, il sistema previsto dal codice civile del 1942 risulta più flessibile e consente di “graduare” l’intensità della misura del sostegno in base alle esigenze del caso concreto. La persona che gode dell’assistenza dell’amministratore di sostegno per la gestione del patrimonio conserva tuttavia autonomia decisionale negli altri ambiti e pertanto si trova nella stessa posizione di ogni altro soggetto per le decisioni che riguardano la fase finale della sua vita.

 

Conclusioni

 

In conclusione, nella tematica in esame si riscontra in Italia un vuoto legislativo, che solo in parte può essere colmato con il ricorso ad alcune norme dettate con riferimento a singole fattispecie oppure ai principi generali.

Si avverte tuttavia un’accresciuta sensibilità nei confronti dell’autonomia del paziente e nella prassi si perviene spesso a forme di collaborazione decisionale tra paziente terminale e medico, nell’ottica di una specie di alleanza terapeutica. Il medico diviene pertanto, in molto casi, una sorta di tutore o di avvocato del paziente, finendo per svolgere nel modo migliore la funzione che alcuni vorrebbero attribuire a un terzo, che dovrebbe essere chiamato a provvedere alla realizzazione delle direttive anticipate del paziente.

Un ruolo importante, nell’esperienza italiana, è inoltre svolto dai parenti che spesso rimangono il più possibile al capezzale dei malati terminali preoccupandosi di condividere con il medico il peso di difficili decisioni nell’interesse del loro caro.

 

 

 

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La scelta del testamento biologico

di Pietro Rescigno

 

Di origine non legislativa ma conosciuto nell’esperienza di molti Paesi è il cosiddetto testamento di vita. “Testamento biologico” e living will sono formule che accostano un vocabolo tecnico-giuridico a una parola che evoca la vicenda umana intesa nella sua “fisicità”.

Il termine “testamento” appartiene al generale patrimonio linguistico; e deve aggiungersi che in esso supera i confini della definizione normativa (che lo descrive come l’atto revocabile “con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse”). Basti pensare al cosiddetto “testamento spirituale”, che si esaurisce in apprezzamenti, giudizi, moniti, consigli, quasi in un esame della vita trascorsa per trarne motivi di compiacimento o di delusione.  È appena necessario aggiungere che dichiarazioni del genere non hanno nulla da spartire con le disposizioni di carattere non patrimoniale che la legge consente siano contenute in un testamento, destinate a essere efficaci, anche se mancano disposizioni di carattere patrimoniale. Comune a tali disposizioni e a quelle patrimoniali è la creazione di vincoli e di aspettative tutelate, in breve di rapporti in virtù dei quali un soggetto può pretendere e un altro soggetto è tenuto a un comportamento conforme alla volontà del disponente.

Le menzione di “categorie” e concetti giuridici, a proposito del testamento biologico, è giustificata dalla domanda circa la possibilità e la legittimità di accogliere nel “sistema” delle “disposizioni testamentari” una nozione resa attuale dall’esercizio di autodeterminazione che si compie con l’impartire “direttive” circa il trattamento da ricevere nel caso di malattia o di un altro fatto che conduca a uno stadio “terminale” dell’esistenza.  Pur se si tratta di un segno esteriore, non è da trascurare la presenza del tema nelle trattazioni recenti del diritto successorio dell’esperienza statunitense: l’inquadramento è nel capitolo “Will Substitutes: Nonprobate Transfers” e le “Health Care Directives” seguono la sezione sul “Durable Power of Attorney”; le “istruzioni” circa la cura della salute, viste nel contesto della legislazione federale e di quella dei singoli Stati, e altresì in “codici” di categoria come nel caso dell’American Medical Association, trascendono la prospettiva della morte come imminente e oggetto di specifica “rappresentazione” del soggetto, e tuttavia in larga misura si risolvono e coincidono col problema del living will.

 

Del testamento biologico il tratto caratteristico è dato dall’incidenza, sul piano degli effetti, su una fase temporale che appartiene ancora alla vita del soggetto. Le “disposizioni” riguardano la fine della vita, intesa come “processo” oltre e più che come “evento” (istantaneo), e più precisamente di quella fase riguardano la durata, e dunque la protrazione o l’eventuale accelerazione.

Il termine “testamento” sembra appropriato, al di là dell’obiezione dell’essere riferite le disposizioni al tempo della vita, e non già a quello in cui il soggetto avrà cessato di vivere, se in esso si ravvisa il carattere di discorso – di un “monologo”, per usare un termine letterario – destinato a essere in concreto ricevuto ed eseguito (ancorché “indirizzato” ai destinatari in epoca remota, al di fuori di ogni conoscenza e specificazione) quando non vi è più alcuna possibilità di controllarne l’esecuzione da parte dell’autore.

Nel sistema del diritto successorio è contemplata la figura dell’esecutore testamentario, investito dell’incarico di curare che siano esattamente eseguite le disposizioni di ultima volontà del defunto; per singoli affari lo strumento del mandato post mortem può garantire un’efficacia proiettata al di là della vita del soggetto; il testamento biologico deve affidarsi, come l’esperienza legislativa e pratica dimostra, in termini di sicura opportunità e forse di insuperabile necessità, alla relazione fiduciaria con soggetti che “eseguano” o siano in grado di vigilare sulla “esecuzione” delle direttive. L’appartenenza alla cerchia familiare dell’autore del living will, il sodalizio nato dall’amicizia o dalla condivisione di ideali interessi, l’instaurazione del rapporto professionale di assistenza e trattamento col medico o l’infermiere rendono agevole la scelta dell’interessato e semplificano la ricerca e l’individuazione di chi debba in definitiva decidere – l’anonima struttura e gli uomini che per essa operano –, delle persone da consultare e ascoltare.

Alla sopravvivenza “assistita” – poiché sulla durata di essa incide il testamento biologico – si connettono principalmente due temi, quello dei trapianti, poiché il consenso all’espianto di organi può essere materia di un living will, e soprattutto la “presa di posizione” del soggetto, nel prefigurarsi una situazione irreversibile senza possibilità di recupero, circa il ricorso e i limiti di uso delle “tecniche” di sostegno della vita, ma di mantenimento in una vita intesa nel senso puramente “materiale” della parola.

Dalla legge californiana sulla “morte naturale” (che è un capitolo, 3.9, aggiunto alla parte 1 della Division 7 dell’Health and Safety Code), poiché il Natural Death Act di quella esperienza rimane uno dei testi collaudati dal tempo (risale al 1976) ed è scritto con buona tecnica e apprezzabile equilibrio, possono trarsi accettabili e utili definizioni della terminal condition e della life-sustaining procedure.

Che il “testamento biologico” possa ammettersi, ed essere considerato valido, nel nostro ordinamento è domanda che può ricevere una positiva risposta già sotto il profilo della liceità degli atti di disposizione del corpo e dell’integrità personale che rispettino i limiti di legge (nel senso che non ne derivi una diminuzione permanente dell’integrità e non si abbia lesione dell’ordine pubblico e del buon costume), e altresì la tutela della privacy e del potere di autodeterminazione in una materia che tocca profondamente la libertà e il destino della persona.

Se non può parlarsi di un diritto alla morte, è da condividere l’idea che abbia fondamento e possa ricevere tutela l’aspettativa individuale a morire “con dignità”, come si esprimono i living will nei formulari proposti ai soggetti interessati a impartire le “direttive”. E qui si prescinde dagli aspetti socio-economici, legati in primo luogo alla limitatezza delle risorse e alla necessità di criteri di scelta nell’allocazione delle stesse, e dal profilo dell’etica professionale chiamata a risolvere l’eventuale contrasto tra il rispetto delle opzioni individuali e i doveri giuridici a prima vista insuscettibili di dispensa. Il punto da sottolineare è che si tratta della sospensione di misure “eroiche” di sostegno, mentre è ancora fermo nella nostra cultura il divieto dell’eutanasia attiva.

Quanto ai requisiti del living will il discorso deve confermare circa il formalismo, la revocabilità, la rinnovazione che ne garantisce la definitività, la capacità e le condizioni di libertà necessarie – quanto venne chiarito alla luce di esperienze fallite (come il progetto della English Society, poi Euthanasia Society, esaminato dalla Camera dei Lord nel 1936 e il progetto Raglan del 1969, sempre nell’ambiente britannico).  I motivi del rifiuto erano suggeriti in prevalenza da preoccupazioni d’indole morale o religiosa – condensate nel wedge principle che respinge, anche nella limitata dimensione del singolo caso, ciò che offenderebbe il comune sentimento se divenisse pratica diffusa –, in breve dal timore di privare il medico di poteri di decisione e il malato della libertà di ripensamenti. Di particolare interesse sono le motivazioni inserite nei “modelli” di leggi o progetti: corrispondono ai living will della prassi, che si moltiplicano dove la legge ignora il fenomeno, testamenti spesso affidati a medici che condividano la filosofia di vita dell’autore. Nella schedule del progetto inglese del 1936, esprimendosi fiducia nei parenti e nei sanitari, e ammonendo ad avvalersi della motivazione specialmente nei casi di incertezza, l’autore dichiara: “ho paura della degradazione e dell’indegnità più di quanto tema la morte prematura”.  È questo sentimento della dignità della morte che domina i living will dell’esperienza americana: “se non vi è ragionevole aspettativa di un mio recupero della infermità fisica o mentale, io chiedo di morire o di non essere lasciato in vita con mezzi artificiali o misure eroiche. La morte è una realtà al pari della nascita, dello sviluppo, della maturità e della vecchiaia, è anzi una certezza. Non temo la morte quanto piuttosto non tema l’indegnità della degradazione, della dipendenza e del dolore senza speranza. Chiedo che per pietà mi siano somministrate droghe contro la sofferenza allo stato terminale, persino ove possano affrettare il momento della morte”. Senza la preoccupazione di conferire all’atto formale una motivazione di particolare solennità, il Natural Death Act californiano è estremamente dettagliato nel fissare limiti e finalità della legge.

L’ambito dei fenomeni considerati, e dei comportamenti permessi, è esplicitamente ristretto all’uso, al mantenimento e alla sospensione di ogni life sustaining procedure, e cioè di interventi che utilizzano mezzi meccanici o altri mezzi artificiali per sostenere, ripristinare o surrogare una funzione vitale, artificialmente prolungando il momento della morte “imminente”. Così attribuito alla legge il compito di assecondare il naturale processo della morte, risultano esclusi dal campo di applicazione non solo l’uccidere per pietà, ma altresì la somministrazione di medicamenti e ogni altra attività diretta ad alleviare la sofferenza.

Si è detto del tono non retorico che, nella formula di quella legge, assume la volontà da affidare alla “direttiva”. Le motivazioni

della legge, in compenso, sono cariche di “valori” che la normativa intende realizzare: il diritto individuale di controllare le decisioni che attengono al trattamento sanitario, sino all’ipotesi estrema della life sustaining procedure allo stadio terminale; la protezione dell’autonomia individuale contro il rischio che sia perduta la dignità del paziente e, senza necessità medica e pratico beneficio, siano accresciute inutile sofferenze; il riconoscimento del decoro della privacy dei pazienti alla base del carattere vincolante che la direttiva riveste, per i medici e lo Stato come ultimo destinatario.

 

La Carte, le Raccomandazioni, i Bills dei diritti e doveri dei malati riconducono agli stessi valori quando si muovono attorno all’esigenza di informare e di fornire cure appropriate nel rispetto della volontà e dignità, e soprattutto quando dichiarano materia di un diritto il non soffrire inutilmente. La scelta fondamentale di politica del diritto, da operare nella materia, riguarda la rimessione all’autonomia del singolo, sia pure attraverso meccanismi che garantiscano la libertà e serietà del volere manifestato in condizioni di piena capacità (legale e naturale), o invece, pur senza trascurare il carattere individuale della decisione, l’inserimento dell’atto privato in una sequenza “procedimentale” fortemente connotata dal controllo “amministrativo”. Nell’una e nell’altra prospettiva –

e la prima, tutta “privatistica”, trova nei principi di autodeterminazione e di tutela della privacy la più appagante giustificazione si inserisce l’ulteriore problema della rilevanza della volontà manifestata dai soggetti legati all’autore delle “direttive” da vincoli giuridicamente rilevanti (in primo luogo, se non esclusivamente, quelli familiari), una volontà che potrebbe discostarsi dalle “direttive” anche con l’invocare comportamenti dell’autore che con le disposizioni non appaiano coerenti. Quest’ultimo aspetto prevale e diviene dominante quando le decisioni circa la personale salute e le cure da intraprendere (o da continuare o da interrompere) siano, per volontà dello stesso interessato, rimesse a un terzo col meccanismo del mandato, o sia la legge a investire, in mancanza di un fiduciario scelto dalla persona (maggiore di età o emancipata), o nell’impossibilità di utilizzarlo, determinati soggetti appartenenti alla cerchia familiare. L’efficacia del conferimento (che è un atto formale) del power of attorney, circa le decisioni da assumere in ordine alla salute, non viene meno per la sopravvenuta incapacità del soggetto, e anzi in vista di questa situazione l’attribuzione del potere acquista particolare significato; l’agent, se non si tratta di persona legata da vincoli di sangue o da matrimonio o da adozione, non può essere persona legata all’istituzione (con carattere di residential long term) che esegue il trattamento; l’agent deve assumere decisioni conformi alle istruzioni (se ve ne sono) del principal, o ai desideri conosciuti; altrimenti il criterio di decisione è quello del migliore interesse del disponente e, nel determinarlo, debbono rispettarsi i “valori” personali del soggetto.Conviene qui far cenno di due orientamenti che vennero manifestati con riguardo all’eventuale disciplina delle direttive anticipate: opinioni che in larga misura svuotano il senso e la portata della novità che si vorrebbe accogliere nel mondo del diritto.

La prima proposta di correzione, che modificherebbe radicalmente l’impostazione del tema, ha a che fare con la capacità del disponente. Un disegno ragionevole deve prevedere che sia sufficiente, per esprimere direttive anticipate vincolanti per i destinatari, la capacità naturale: capacità che non ricorre, generalmente, nel soggetto legalmente incapace di agire e che potrebbe tuttavia, in linea di principio, conseguirsi anche anticipatamente rispetto alla maggiore età; la capacità naturale, per altro verso, restringe il campo dei soggetti maggiorenni, perché in concreto, in un certo momento, essi potrebbero non essere in condizione di esprimere liberamente e validamente la loro volontà. L’obiezione, in proposito, è che la perdita della capacità naturale porrebbe un problema di persistenza della volontà, che è alla base della direttiva anticipata.In definitiva, si condivide l’attenzione per la capacità di discernimento della persona, per la capacità di fatto di intendere e volere, ma si vorrebbe privare di effetti la direttiva anticipata in seguito al suo successivo venir meno, perché la perdita di tale naturale capacità precluderebbe al soggetto di cambiare idea e di ritornare sulle sue determinazioni. Ma l’obiezione dovrebbe valere anche per le disposizioni patrimoniali del soggetto, mentre è noto che della persona che redige un testamento e successivamente perde la capacità, e la stessa capacità legale, il testamento resta efficace: la legge considera valida la manifestazione di volontà ultima nel tempo, se non è contraddetta da manifestazioni successive. L’obiezione sulla perdita eventuale della capacità naturale, ove accolta, finirebbe con l’incidere negativamente sulla libertà del soggetto: il fatto che la persona non abbia più la possibilità di revocare l’atto non è un motivo per disconoscerle a posteriori la libertà che, compiendo l’atto, ha esercitato.

L’altra critica riguarda la possibilità, quando sopravvenga la naturale incapacità del soggetto, di affidare la decisione a un terzo, a un fiduciario, secondo l’idea praticata in altri ordinamenti.  In essi ritroviamo figure, che si prestano a essere usate sia con riguardo a rapporti patrimoniali, sia per decisioni che attengono al trattamento medico e alla vita della persona.  Così in Germania si è creata di recente la Betreuvng, che non sopprime ma in larga misura sostituisce il vecchio istituto dell’interdizione: il soggetto incaricato può esercitare la sua funzione sostituendosi sia nella gestione del patrimonio, sia nelle decisioni di natura personale, comprese quelle che toccano il trattamento da ricevere nella malattia o nella condizione terminale che qui interessa. La soluzione del fiduciario appare la più coerente col sistema che contempla, e quindi valuta positivamente, figure come la rappresentanza e il mandato.

Il potere di determinarsi riconosciuto al soggetto di diritto consiste in generale sia nel compire gli atti e nello svolgere l’attività che lo riguarda, sia nella possibilità di delegarne lo svolgimento, con effetti vincolanti, ad altri, per singoli rapporti o per aree di decisioni e interessi; all’autonomia di ciascuno appartiene persino di attribuire il potere di sostituzione per la totalità dei rapporti, con esclusione dei diritti e dei rapporti di natura strettamente personale che non appartengono alla materia di cui ci occupiamo. Non solo dunque la figura del fiduciario non è incoerente col sistema, ma corrisponde più di ogni altra al principio di libera autodeterminazione, che si risolve nella possibilità di delegare la decisione in un momento in cui il soggetto non sarà in grado di decidere personalmente.

Il potere di rappresentanza conferito attraverso una procura non si perde per il fatto che l’interessato sia divenuto incapace, anzi il sistema lo considera allora e a maggior ragione giustificato.  Proporre di trasferire alla famiglia i poteri del fiduciario significa innanzi tutto contrastare una volontà che ha preferito il terzo; senza contare che la famiglia non è un unitario soggetto collettivo, ma dal diritto positivo è opportunamente considerata per quello che è: una pluralità di persone che ben potrebbero esprimere orientamenti e pareri difformi. Se pensiamo alle convivenze di fatto e a quelle comunità di vita che si realizzano oggi attraverso processi di sovrapposizione o integrazione tra gruppi familiari diversi in seguito alla morte, alla separazione, al divorzio, ancor più chiaramente ci rendiamo conto della mancanza, tecnicamente, di organi di formazione di una volontà comune imputabile alla famiglia come tale. Investire la famiglia delle decisioni in questa materia presenterebbe dunque, innanzitutto, il rischio di contrasti tra posizioni differenti, e aggraverebbe il timore che le decisioni nascondano valutazioni di comodo e interessi personali, come accadeva nell’ultimo film di Sidney Lumet, dove le due sorelle che assistono il padre morente sono l’una portatrice del valore della dignità della morte e l’altra della sacralità della vita, ma in realtà ragionano alla stregua di interessi patrimoniali che sarebbero secondo la valutazione dell’una favoriti e per l’altra pregiudicati dalla morte del padre. 

 

 

 

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Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche

di Guido Alpa

 

 

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Premessa

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Il dibattito sulla rilevanza giuridica ed etica di “direttive anticipate”che l’interessato voglia esprimere sulle cure medichea cui potrà essere sottoposto nel futuro, specialmente nel caso in cui il trattamento debba essere effettuato sul paziente che versi in stato di incapacità legale o naturale, si è riaperto nel nostro Paese in un momento particolarmente complesso dal punto di vista politico, culturale e sociale. Era appena terminata la vivace polemica sul referendum abrogativo della legge n. 40 del 2004 concernente la procreazione medicalmente assistita1 che – registratosi il risultato negativo della consultazione – sono emersi ulteriori terreni di conflitto. Si è proposto di riesaminare la disciplina dell’aborto, di introdurre regole sull’adozione degli embrioni, di mantenere fermo il divieto di prescrizione di farmaci anticoncezionali, con una determinazione coerente nel riportare indietro negli anni le frontiere

della laicità dello Stato e dei diritti civili, ormai attestate su posizioni ragionevoli e condivise. Si è ritornati su argomenti che sembravano ormai destinati all’oblio perché ritenuti definitivamente risolti. Si è postulata l’assolutezza dei diritti fondamentali, predicandone l’origine divina, si è condannata la relatività etica, si è contrastata ogni iniziativa volta a riconoscere all’individuo la libertà di scelta nelle vicende biologiche che riguardano la sua stessa persona. Si è acuito, in altri termini, il divario tra posizioni scientifiche e posizioni bioetiche: la scienza prosegue il suo cammino verso nuove scoperte (sull’uso delle cellule staminali, sull’uso degli embrioni, sul ritardo dell’invecchiamento) e la bioetica ha imboccato il senso opposto, tornando ad arroccarsi su presupposti fondamentalisti che ben poco spazio lasciano alla ricerca, alla libertà personale, alla vita e alla morte dignitose. È certo semplificante parlare di scienza e bioetica in conflitto tra loro: perché gli indirizzi scientifici sono variegati e le interpretazioni della bioetica non sono univoche; tuttavia, se guardiamo alla situazione italiana – anche da questo punto di vista anomala rispetto agli altri Paesi dell’Unione europea – la contrapposizione sembra il paradigma più appropriato per descrivere la realtà delle cose in questa fase storica. Oggi, la scienza, cioè la medicina, la biologia, la filosofia, sono prevalentemente favorevoli a una tutela della persona che non si spinga a considerare la vita come sinonimo di concepimento e la morte come sinonimo di esaurimento di tutte le possibilità di alimentazione artificiale. Al contrario, oggi la bioetica è prevalentemente orientata a identificare l’embrione con la persona, e a considerare ogni iniziativa volta ad abbreviare la terapia del dolore, a evitare l’accanimento terapeutico, a dismettere i trattamenti di sopravvivenza artificiale come altrettante forme di eutanasia, e pertanto da bandire in modo inesorabile. Con un’intelligente e realistica analisi dei problemi della vita e della morte, e con la delicatezza che solo il medico e lo scienziato possono impiegare senza urtare le coscienze e le posizioni preconcette, Umberto Veronesi ha trattato il tema della fine della vita nel suo libro più recente, che ha suscitato apprezzamenti e polemiche prima ancora di essere disponibile in libreria. Segno, questo, dell’attenzione con cui il pubblico segue i problemi della bioetica e partecipa, spesso con passione ma anche con pregiudizi inveterati, a una discussione che dovrebbe essere affidata, per converso, alla ragione e quindi alla distinzione tra etica religiosa ed etica laica.

 

L’ambito dell’indagine di queste problematiche è molto vasto, mentre in queste pagine l’argomento è circoscritto alle “direttive anticipate sui trattamenti sanitari”. Un problema che più spesso, ormai per convenzione linguistica, si esprime in termini di legittimità ed efficacia del “testamento biologico”, e che si ricollega all’accanimento terapeutico; talvolta, ma a effetto, esso è associato alla tematica dell’eutanasia passiva, per inferirne una condanna morale e una valutazione di illegittimità.

In termini di filosofia giuridica e di diritto positivo si può anche descrivere ricorrendo a un’altra formula: il principio di autodeterminazione (che fa pendant con il principio responsabilità teorizzato da Hans Jonas) in base al quale solo il soggetto

(cioè la persona o l’interessato) ha diritto di decidere la sorte del proprio corpo, della propria vita, delle terapie che può accettare o rifiutare al fine di alleviare il dolore e di protrarre il corso della vita. Non voglio estendere la materia all’autodeterminazione nella scelta del momento di finire la vita, perché si dovrebbe allora coinvolgere le questioni del suicidio, dell’eutanasia nelle sue diverse forme, e così via. È sufficiente ripercorrere la dottrina, la giurisprudenza e la legislazione speciale attuative dell’art. 32 Cost., concernente il diritto alla salute, e poi la dottrina e la giurisprudenza sull’art. 5 c.c.      concernente gli atti di disposizione del proprio corpo, e ancora l’illustrazione delle regole che, di rango costituzionale e ora anche europeo, costruiscono la persona come il titolare di ogni diritto che la riguarda, per assegnare soluzione a tutte le questioni aperte ricorrendo al principio di autodeterminazione.  Tuttavia, gli orientamenti oggi sono divisi e quindi occorre riprendere per alcuni capi il filo del dibattito. A soli fini espositivi si possono individuare tre fasi del dibattito.

 

 

La prima fase del dibattito. Accanimento terapeutico e diritti dei malati e dei morenti

 

Il 29.1.1976, dopo la discussione del rapporto preparato dalla Commissione per i problemi sociali e sanitari, l’Assemblea del

Consiglio d’Europa adotta la Raccomandazione relativa ai diritti dei malati e dei morenti3. Già allora si avvertiva la necessità

di intervenire, con un testo che raccogliesse principi generali condivisi da tutti i Paesi europei, sugli avanzamenti della medicina, al fine di evitare che i suoi “progressi rapidi e costanti” potessero creare problemi e celare minacce “per i diritti fondamentali dell’uomo e per l’integrità dei malati”. Le premesse della Raccomandazione sono molto ragionevoli, meditate e moderate: prendono atto che la medicina, assumendo un carattere sempre più “tecnico”, corre il rischio di perdere il suo volto “umano”; che i medici debbono rispettare “la volontà dell’interessato circa il trattamento da applicare”; che a tutti i malati deve essere riconosciuto e garantito il diritto alla dignità e alla integrità, il diritto alla informazione e alle cure appropriate; che la professione medica, essendo al servizio dell’uomo, deve essere rivolta alla protezione della salute, al trattamento di malattie e ferite, all’alleviamento delle sofferenze,“nel rispetto della vita umana e della persona umana”; che “il prolungamento della vita non debba essere in sé lo scopo

esclusivo della pratica medica”; che il medico “non ha il diritto, neppure nei casi che sembrano disperati, di affrettare intenzionalmente il processo naturale della morte”; che “il prolungamento con mezzi artificiali dipende da fattori quali l’attrezzatura disponibile”; che i medici possono trovarsi in situazioni difficili quando la vita possa essere prolungata per molto tempo anche in caso di irreversibilità della cessazione di tutte le funzioni cerebrali; che i medici non debbono essere costretti ad agire contro la propria coscienza in correlazione con il diritto del malato di non soffrire inutilmente.

Le premesse avrebbero potuto portare all’enunciazione di raccomandazioni precise in ordine alla definizione dei diritti dei malati e al comportamento dei medici. Tuttavia, proprio perché allora la discussione era ai suoi albori e il consenso di tutti gli Stati membri del Consiglio avrebbe potuto coagularsi intorno a principi sufficientemente elastici e non prescrittivi, le raccomandazioni che scaturiscono da quelle premesse sono scarne e piuttosto deludenti: si limitano a promuovere la formazione del personale medico perché i malati siano alleviati nella loro sofferenza; a richiamare l’attenzione dei medici sul diritto dei malati a conoscere il loro stato di salute e –con riguardo al nostro tema – a promuovere la possibilità per i malati di preparasi psicologicamente alla morte.

Pur così mutilata della sua Raccomandazione fondamentale,che tuttavia si può considerare esplicitata nelle premesse – consistente nel riconoscere al malato il diritto di sapere e quindi di determinarsi in ordine al trattamento sanitario impartitogli, e finanche di assumere disposizioni in ordine al trattamento, perché non sia protratto in contrasto con la dignità umana la Risoluzione fu accolta con positive valutazioni. Pochi anni dopo la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (il 5.5.1980) diffonde la sua Dichiarazione sull’eutanasia in cui si pone in evidenza che la “vita umana è il fondamento di tutti i beni”, si contrappone la tutela della vita all’eutanasia, ma si consente l’uso di analgesici per lenire il dolore, pur volendo mantenere vigile la coscienza dell’uomo per l’incontro con Cristo al termine della vita umana e all’inizio della vita eterna. Anche a queste condizioni, tuttavia, la stessa Congregazione aveva modo di precisare che “è molto importante oggi proteggere, nel momento della morte, la dignità della persona umana”, anche in contrasto con le tecnologie che spingono la medicina a esperire ogni tentativo per prolungare la vita. 

Il problema era posto, in allora, in modo rovesciato rispetto a quello considerato dai laici: non tanto l’opportunità di far cessare le cure per salvare la dignità, quanto far cessare le cure quando esse non diano, o non possano dare, il risultato sperato.  Per dirlo con le parole della Dichiarazione: “In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata (...) e anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze risposte in essi”.  La stessa Dichiarazione aggiunge una precisazione molto rilevante: “È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può quindi imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere a un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale a suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività.  Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi.  Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza a una persona in pericolo”.  Considerate con attenzione, le due formulazioni non sono molto distanti tra loro, anzi, sono più numerosi i punti di contatto che i punti di divergenza che esse presentano.

Entrambi i documenti collocano la questione del trattamento sanitario diretto al prolungamento della vita in una dialettica

che vede tra loro contrapposte la posizione del paziente e quella del medico: al paziente si deve garantire la consapevolezza della situazione in cui egli versa e un trattamento non contrastante con la dignità umana; il medico non deve promuovere terapie sperimentali né accanirsi nel trattamento perché lo scopo della medicina non consiste nel prolungamento della vita ma nell’alleviamento delle sofferenze; le terapie prestate, inoltre, debbono essere bilanciate secondo i risultati ottenibili senza inutili torture. Non sono coinvolti i congiunti, e tanto meno il giudice. Non si considera il problema dei minorenni, anche se in ogni ordinamento le questioni inerenti il trattamento sanitario dei minorenni sono risolte da chi esercita la potestà, a meno che l’ordinamento non preveda vincoli invalicabili.

Entrambi i documenti si pongono problemi che investono la collettività, ma soprattutto la Dichiarazione affronta il problema della disparità di trattamento dei pazienti a seconda delle loro disponibilità economiche. Per parte sua la Raccomandazione si pone il problema della situazione in cui versa il paziente incapace di decidere, e quindi si rivolge agli Stati aderenti perché siano istituite commissioni d’inchiesta dirette, tra l’altro, a esaminare il problema “delle dichiarazioni scritte fatte da persone giuridicamente capaci autorizzando i medici a rinunciare a misure per prolungare la vita, in particolare in caso di cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali”.

 

La seconda fase del dibattito. Il “testamento biologico”

 

Dopo tre lustri il problema si acuisce, anche per effetto dell’evoluzione tecnologica che consente alla medicina di prolungare sine die la vita del paziente, anche se questi è incosciente, ha perso le funzioni cerebrali, e può sopravvivere solo se alimentato artificialmente. I termini del problema – sopra esposti dai due primi documenti con un certo candore – si spostano ulteriormente: ora la medicina può osare di più, perché i trattamenti un tempo ritenuti sperimentali possono considerarsi “ordinari”; la finalità del trattamento terapeutico non è rivolta solo ad alleviare il dolore ma a prolungare comunque la vita (sempre che di “vita” si possa parlare quando sia solo respirazione e alimentazione, ma non coscienza vigile); compaiono sulla scena altri soggetti, come i congiunti e i giudici; mentre sul piano legislativo, almeno nel nostro Paese, non si è pronti per dettare soluzioni al problema. Forse per esacerbare il dibattito i mass media tendono a parlare più di eutanasia passiva che non di cessazione di trattamenti inutilmente lesivi della dignità della persona. Nessuno parla ancora di sprechi economici o di scelte tragiche quando le risorse sono scarse e le cure non si possono assicurare a tutti, perché all’epoca è persistente lo “Stato sociale”, lo “Stato-Provvidenza”, ed è ancora radicata la concezione che la collettività deve subentrare quando l’individuo non può provvedere da sé al trattamento medico.

È merito di alcuni studiosi – sociologi, medici, giuristi – e di esponenti politici, di gruppi di ricerca e di animazione culturale, riproporre il tema. Al convegno organizzato da Politeia a Roma nel marzo 1990, per sollecitazione del senatore Luigi Manconi, si presenta alla comunità scientifica e alle istituzioni una proposta di legge che incontra un largo favore. Avendone discusso e rivisto il testo, la proposta prende il mio nome5. Ma si tratta di un’iniziativa che associa il “testamento biologico” all’accanimento terapeutico: in altri termini, il testamento biologico non è considerato in sé e per sé, ma piuttosto come strumento per la tutela dei diritti fondamentali della persona e per la sua difesa da trattamenti sanitari non desiderati, aggressivi e lesivi della dignità umana.

Per l’appunto lo scopo della proposta consiste nel difendere il diritto all’autodeterminazione, consentendo a tutti di disporre

in ordine al divieto di iniziare o di proseguire il trattamento consistente nelle procedure di sostegno vitale in condizioni

terminali o atte a procrastinare per breve tempo il processo del morire. Il problema della comunicazione delle determinazioni era risolto nella loro raccolta in un atto scritto, anche anteriore al momento in cui il trattamento dovesse essere applicato, e anche rivolto ad affidare la decisione a un terzo nel caso in cui il disponente non fosse stato più in grado di intendere o di volere. Quanto alla forma, si era pensato di renderla solenne, ma solo con la presenza di due testimoni, certo non con la formazione di un atto pubblico: al contrario, il testo doveva affidarsi al medico curante, che l’avrebbe conservato.  Si prevedeva anche un modello che avrebbe agevolato ogni interessato a stendere la dichiarazione, che comunque doveva intendersi come sempre revocabile.

La proposta di legge non ebbe fortuna, anche se contribuì ad agitare le coscienze e a stimolare il dibattito. Peraltro essa

era connessa con altre problematiche, inerenti la definizione della morte. E il Comitato Nazionale di Bioetica (istituito presso

la Presidenza del Consiglio dei Ministri), nel breve volgere di pochi mesi, approvò tre importanti documenti: uno dedicato

a Definizione e accertamento della morte nell’uomo (15.2.1991), l’altro all’Assistenza ai pazienti terminali (6.9.1991), e il terzo alle Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana (14.7.1995)6. C’è notevole difformità tra i primi due pareri e il terzo, ma non è il caso di insistervi in questa sede. È comprensibile che con il mutamento dei componenti del Comitato e del clima, anche politico, nel corso degli anni, le valutazioni di natura etica tendano a modificarsi, confermando il principio di relatività che si applica anche nelle valutazioni di questa natura.  In particolare, mentre i primi due pareri mostrano una certa accondiscendenza a valutare la vita anche nei suoi aspetti psico-fisici, e quindi nella sua dimensione “qualitativa”, il terzo è più dubitativo.

In ogni caso, riguardo al testamento biologico l’ultimo parere precisa che il Comitato “riconosce senz’altro rilievo morale alle direttive anticipate di trattamento, ma manifesta le propria perplessità quando queste acquistano il carattere di veri e propri testamenti di vita, perplessità che si fanno particolarmente gravi soprattutto nei confronti di alcune versioni di essi, di cui è possibile riscontrare oggi una sempre maggior diffusione (...). A giudizio del CNB non è comunque possibile riconoscere un valore perentorio a tali direttive, ma eventualmente quello di mero orientamento del comportamento di chi assiste il paziente.

Questo assunto è collocato tra l’affermazione che condanna l’accanimento terapeutico, da un lato, e l’eutanasia passiva, dall’altro lato. Ma al di là della sua collocazione, che pure è significativa per darne un’interpretazione meta-giuridica, questo assunto sembra in contrasto con la disciplina già allora vigente.  Infatti, era convinzione di tutti i firmatari della proposta di legge emersa al convegno di Politeia che essa non portasse innovazioni di sostanza ma piuttosto di forma, e che le regole sottoposte all’attenzione del legislatore servissero soltanto a semplificare l’applicazione delle direttive anticipate, ma non a conferire loro una rilevanza giuridica che già ad esse si riconosceva. In altri termini, come si poteva ritenere che una manifestazione di volontà diretta all’esercizio di un diritto garantito costituzionalmente – il diritto di rifiutare cure mediche – non potesse avere rilevanza giuridica7? Era d’altronde del tutto indifferente che tale dichiarazione non fosse contestuale al momento in cui le cure, peraltro normalmente concernenti il prolungamento della vita in situazioni di gravità e di disagio, fossero prestate. Nessuno, ancora, riteneva che attraverso quella proposta si volesse introdurre nella nostra esperienza un nuovo tipo di testamento, destinato a valere fintanto che il

disponente fosse in vita. Tutti erano persuasi che l’espressione testamento biologico – traduzione approssimativa di living

will – non fosse solo allusiva a un atto formale di ultime volontà, ma piuttosto riguardasse una dichiarazione di volontà

concernente trattamenti sanitari posticipati rispetto al momento in cui essi sarebbero stati praticati. Tutti erano d’accordo nel conferire validità alla dichiarazione, anche se chi l’avesse predisposta avrebbe corso il rischio che fosse applicata in un momento in cui, non essendo più cosciente, non aveva l’opportunità di revocarla. Ma chi scriveva una dichiarazione di tal fatta poteva circoscriverne gli effetti, e comunque si assumeva volontariamente il rischio relativo.

 

 

La terza fase del dibattito. La dignità del morente

A distanza di cinque lustri dalla prima Raccomandazione del Consiglio d’Europa, sviluppatisi enormemente i processi tecnologici applicati alla medicina, il problema si acuisce e diventa sempre più difficile tracciare una linea di demarcazione tra la cura e l’accanimento terapeutico. Ciò che un tempo era straordinario, sperimentale, particolarmente oneroso, diviene routinario, normale, anche se continua a essere oneroso. Non è più lo Stato sociale che provvede, ma le cliniche private e l’assicurazione, e quando le scelte diventano tragiche, si comincia a discutere su quali criteri oggettivi debbano esser effettuate, per non incorrere nella discriminazione dei pazienti.

 

Il legislatore italiano, tuttavia, è ancora latitante, ma cominciano a moltiplicarsi gli interventi negli altri Paesi dell’Unione, che prendono a modello le leggi introdotte nell’America del Nord8. I siti americani e canadesi pullulano di informazioni sul living will, ne propongono modelli, ne illustrano gli aspetti vantaggiosi, e nasce persino un settore professionale, in cui sono attivi avvocati, medici e religiosi, che serve di guida, consiglio e strumento operativo per il cliente interessato a profittarne9. Proprio dagli Stati Uniti provengono due tra i casi più famosi e più discussi in tutto il mondo: quello di Nancy Cruzan e quello di Terry Schiavo.

Mi preme ricordare che in un contesto molto diverso da quello in cui fu calata la sua prima Raccomandazione, il Consiglio

d’Europa interviene nuovamente con un testo intitolato Protection des droits de l’homme et de la dignité des malades

incurables et des mourants: si tratta della Raccomandazione n. 1418 adottata dall’Assemblea il 25.6.199910.

Tutto il testo è informato al principio della dignità dell’uomo, che non può esser passata sotto silenzio dalle tecnologie della medicina che sembrano indifferenti, nel voler prolungare la vita di chi soffre, alla solitudine e al dolore del morente e dei suoi congiunti. Richiamati i principi della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla dignità umana nelle applicazioni della biologia e della medicina, la Raccomandazione si sofferma sulla necessità di assicurare al paziente un trattamento ragionevole contro il dolore, sull’opportunità di effettuare una valutazione proporzionata delle misure con cui prolungare artificialmente la sua vita, sull’esigenza di formare culturalmente la classe medica e i parenti, ma registra anche l’assenza di un ambiente solidale, la carenza di risorse finanziarie e la discriminazione sociale di fronte alla malattia, all’agonia e alla morte. Le proposte finali sono molto più articolate di quelle, semplici, schematiche, e meramente programmatiche del 1999: esse coinvolgono non solo la comunità scientifica e le istituzioni politiche, ma tutti i soggetti che, a vario titolo, svolgono un ruolo nell’organizzazione della vita terminale dei malati.

Particolare attenzione, in questa Raccomandazione, ricevono le determinazioni del soggetto: il quale deve essere, innanzitutto,

informato adeguatamente, deve essere protetto nell’osservanza delle sue volontà, protetto dall’intervento terapeutico

non desiderato, e protetto nel rispetto delle istruzioni o dichiarazioni formali (living will) dirette a rifiutare determinati trattamenti terapeutici. La Raccomandazione precisa ancora che occorre assicurare che il rappresentante legale del paziente “non assuma, in luogo dell’interessato, decisioni fondate su dichiarazioni precedenti del paziente o su presunzioni di volontà che questi non abbia mai espresso direttamente o chiaramente”; insiste cioè nel rispetto della volontà del paziente anche se contrastante con i valori prevalenti nella società in cui egli vive o con le indicazioni offerte dai medici. Mentre sul piano dei principi condivisi dai Paesi europei avanza l’idea di autodeterminazione del paziente, si irrigidisce la posizione della Chiesa cattolica che, con il documento predisposto in epoca coeva alla Raccomandazione dalla Pontificia Accademia per la Vita, considera le argomentazioni rivolte a prevenire l’accanimento terapeutico e il lenimento del dolore come strumenti ambigui, artatamente utilizzati per dare ingresso a forme più o meno larvate di eutanasia11.

Il principio di autodeterminazione viene inteso in senso restrittivo, e subordinato al valore della vita, comunque essa debba essere vissuta, non potendo l’uomo esserne il “padrone assoluto”.  E pur riconoscendo che verso il malato grave e il morente occorre comportarsi in modo da non indulgere all’accanimento terapeutico, la Pontificia Accademia distingue tra cure ordinarie (comprensive della nutrizione e della idratazione, anche se artificiali), cure palliative, dirette a lenire il dolore, e terapie straordinarie o rischiose. Solo in quest’ultimo caso si consente al paziente di esprimere le proprie volontà.

La medesima classificazione si rinviene nell’ultimo documento approvato in materia dal Comitato Nazionale per la Bioetica, dedicato a L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, che è stato pubblicato poco tempo fa, per l’appunto il 30.9.200512. Il Comitato si concentra sulle cure, cioè sulla fase in cui occorre prendere la decisione di attivarle e su quella, eventuale, di sospenderle. Considera necessaria la prima, illegittima la seconda. Ciò in considerazione del fatto che i trattamenti volti a mantenere in vita il paziente sono ormai accreditati dalla scienza medica come cure normali e rispondono ai principi di civiltà solidale in cui viviamo, che impongono a ciascuno di “prendersi cura del più debole”.

Quanto alle dichiarazioni anticipate di trattamento, il CNB, richiamato il precedente parere reso nel 200313, ritiene che esse siano lecite e vincolanti, e tuttavia possano essere prese in considerazione soltanto se riferite a trattamenti di natura straordinaria. In tutti gli altri casi, nonostante la volontà del paziente, il medico, a parere del Comitato, ha il dovere di non osservarle e di procedere con l’assoggettamento del paziente alle cure stabilite14. Questo parere è stato contestato però nella sua fondatezza scientifica e nella sua coerenza con il precedente parere sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, del dicembre 2003. A questo proposito, infatti, il CNB aveva dichiarato che “ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale”.

 

La situazione attuale. Utilità dell’intervento legislativo.

 

In questo quadro complesso, in cui si intrecciano problemi di biodiritto, posizioni filosofiche e religiose, ideologie tra loro contrastanti come quelle a fondamento individualista e quelle a fondamento solidaristico, e in cui la legge civile non è coordinata con la legge penale, l’intervento legislativo è utile per molteplici ragioni, anche se, ragionando sui principi costituzionali e sulle regole che si applicano alle dichiarazioni di volontà, si potrebbe giungere alla conclusione che le “dichiarazioni di volontà anticipate” hanno una valenza giuridica in ogni caso e già oggi.

Innanzitutto occorre sgombrare il campo da alcuni equivoci.  Quando si parla di “dichiarazioni di volontà anticipate” non ci si riferisce all’eutanasia, perché non si richiede né il comportamento attivo di terzi per ottenere il risultato di mettere fine alla vita, né si richiede la passiva partecipazione di terzi, in quanto oggetto di tali dichiarazioni è il rifiuto del trattamento medico. Anche se cristallizzato nel tempo, tale rifiuto vale a esercitare il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che può consistere, nel caso di adulti, nell’esercizio negativo del diritto.  Sono quindi estranei a questo ambito di temi: (i) i problemi inerenti al minore e a chi debba decidere in suo luogo; (ii) i problemi relativi a persone che non abbiano esternato le loro volontà circa i trattamenti terapeutici (e quindi restano estranei alla nostra discussione i casi di Nancy, Terry, Eluana e di tutte le altre vittime di controversie giudiziarie riguardanti la cessazione dei trattamenti terapeutici)15; (iii) lo stesso “testamento” biologico, nella misura in cui sia assimilato per l’appunto ad atti di ultima volontà, o sia prospettata l’analogia delle dichiarazioni in esame con atti mortis causa.

Tuttavia, anche se la tutela dell’autonomia privata comporta l’assegnazione di effetti a dichiarazioni di tal fatta, l’intervento

legislativo segnerebbe vantaggi consistenti: (i) nella certezza del rapporto giuridico, nel senso che non vi sarebbero più contrasti in ordine al fondamento giuridico, alla validità, agli effetti di tali dichiarazioni; (ii) nella prevalenza delle dichiarazioni dell’interessato rispetto a qualsiasi altra volontà imputabile a congiunti, parenti, conviventi, medici, comitati etici ospedalieri, autorità amministrative e allo stesso giudice; (iii) nell’esonero da qualsiasi responsabilità del medico curante e di ogni altro operatore coinvolto nelle terapie. L’esigenza di dare una risposta alle attese di quanti intendono “morire con dignità” ha indotto esponenti di diverse parti politiche a presentare disegni di legge nelle ultime legislature16, e perfino la categoria professionale che – all’apparenza –sarebbe investita dagli adempimenti del caso, quella notarile, ha predisposto un testo diretto a disciplinare le dichiarazioni anticipate di volontà nei trattamenti sanitari17. Si sono anche moltiplicati i convegni organizzati da sedi universitarie e da

organizzazioni private per diffondere la cultura del “testamento biologico”18 e i siti web dai quali trarre utili informazioni, oltre che modelli di “dichiarazioni anticipate”19.

 

Il dl n. 2943, in particolare, prevede due modalità per esternare la volontà dell’interessato al governo dei trattamenti sanitari

che lo concernono o che lo potranno concernere in futuro: il “testamento di vita” e il “mandato in previsione dell’incapacità”. Al di là della terminologia utilizzata – ritengo preferibile parlare di “dichiarazioni anticipate di trattamento”, anziché di testamento biologico o di vita (anche se a suo tempo ne avevo condiviso la dizione) – le finalità che si vogliono raggiungere sono altamente meritevoli: si vuol riservare all’interessato sia il diritto di esprimersi direttamente sui trattamenti sanitari che lo concernono sia il diritto di scegliere la persona che potrà in suo luogo provvedere alla bisogna, nel caso in cui egli versi in stato di incapacità naturale.

Mi domando però se sia necessario sdoppiare l’atto, potendo esso contenere sia disposizioni direttamente impartite dall’interessato, sia istruzioni conferite al mandatario che debba operare in sua vece. Scorrendo l’articolato, si possono muovere poi alcuni appunti al testo, che, sostanzialmente riprende le soluzioni offerte a suo tempo dai fautori del testamento biologico.

Tralasciando le definizioni contenute in apertura (art. 1), ci si può chiedere se sia necessario associare le dichiarazioni anticipate sul trattamento medico al “consenso informato”. Se le regole riguardano il consenso in modo proprio, cioè qualsiasi forma e occasione in cui il consenso debba essere prestato, probabilmente la disposizione avrebbe potuto essere collocata in altro contesto, ad esempio in una disciplina che riordini i diritti del paziente affidato a strutture ospedaliere. È probabile che il richiamo al consenso fosse necessario per far “digerire” politicamente un testo, altrimenti tacciabile (da parte degli oppositori a qualsiasi forma di intervento legislativo in materia) di essere troppo liberista in settore delicato come quello della tutela della vita. In ogni caso, la disposizione è in linea con i risultati cui sono pervenute la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, sì che non recherebbe grandi novità. Apre tuttavia un dubbio: consentendo la revoca del consenso al trattamento anche “parziale”, non risolve il problema della difficoltà di cessare il trattamento iniziato nell’eventualità che la sospensione o la cessazione possano produrre lesioni o comunque danni, alterazioni, disfunzioni di cui sarebbe destinatario lo stesso revocante. Mi sembrerebbe pertanto opportuno, in caso di revoca di trattamento in corso, subordinare l’efficacia della revoca al giudizio del medico curante, che potrà valutare, tenuto conto della volontà del paziente, gli eventuali effetti nocivi determinati dalla revoca e le possibilità di recupero del paziente. Per contro, se si tratta di trattamenti a pazienti terminali, la revoca significa semplicemente esercizio del diritto di morire dignitosamente, e quindi la valutazione del medico è del tutto superflua, anzi potrebbe risultare dannosa perché ostativa della volontà dell’interessato.

L’art. 3 prevede la disciplina delle decisioni sostitutive, nel caso in cui l’interessato non abbia provveduto direttamente.  Al di là della precedenza accordata al “mandatario” e al “fiduciario” – cioè al soggetto a cui ci riferisce il dl quale depositario del potere di sostituirsi all’interessato per volontà dell’interessato medesimo – ho molti dubbi che la scelta di iniziare, proseguire, sospendere, o cessare il trattamento terapeutico competano all’amministratore di sostegno o al tutore, soggetti che la disciplina vigente prende in considerazione solo per il compimento di atti di amministrazione aventi natura patrimoniale.  Altri dubbi solleva la successione di legittimati: il coniuge (non legalmente separato, oppure il convivente more uxorio) è preferito ai figli; la preferenza è dovuta alla comunanza di vita, o al fatto che in via successoria il coniuge gode di una riserva che prevale quantitativamente su quella prevista per i figli?  E perché non dare la preferenza ai figli, posto che in questa situazione è il vincolo del sangue che dovrebbe prevalere su quello coniugale? E che dire dei genitori, posposti al coniuge e ai figli? Se si seguono le regole successorie, i genitori – in presenza di coniuge e figli – non sono eredi necessari, e quindi sono più liberi di esprimere una volontà “disinteressata”. Mi rendo conto del fatto che ogni scelta presenti aspetti positivi e aspetti negativi. Il caso di Terry Schiavo è emblematico al riguardo: sta a dimostrare che il conflitto tra coniuge e genitori può essere motivato dall’interesse personale (l’interesse economico del marito e quello “ideologico” dei genitori).

Difficile poi capire perché il convivente stabile dovrebbe prevalere sui genitori, mentre è comprensibile che prevalga sui parenti entro il quarto grado. L’art. 5, riguardante le situazioni d’urgenza in cui il consenso non è esprimibile dall’interessato, precisa che tale consenso non è richiesto neppure al minore, quando questi versi in pericolo di vita o sia minacciata la sua integrità fisica. Questa precisazione riguardante il minore non si capirebbe (perché è ovvio che il consenso non può essere espresso dal minorenne) se non fosse collegata con la disposizione successiva, prevista dall’art. 6 c. 3, che riconosce al minore quattordicenne il diritto di prestare il consenso al trattamento medico. Non credo che si tratti di scelta ottimale, tenuto conto della giovane età considerata e della generale immaturità propria dei giovani a quell’età.

Allo stesso modo, mi sembra del tutto peregrino richiedere il consenso all’interdetto e all’inabilitato (art. 7).  Quando poi il consenso debba essere prestato dal giudice, non si comprende perché il medico curante debba essere sentito solo nei casi di urgenza (art. 8 c. 1). Il dl regola anche il “mandato in previsione dell’incapacità” agli artt. 9-11. In realtà, non si tratta di un mandato che ha a oggetto solo le determinazioni relative al trattamento sanitario.  Tutta la disciplina inserisce una nuova figura diretta a salvare il potere sostitutivo anche in caso di sopravvenienza di incapacità, anzi proprio a causa dell’incapacità. Occorrerebbe allora distinguere il caso in cui il mandato riguardi solo le determinazioni di ordine sanitario – e allora non si vede perché sia necessario l’atto notarile, peraltro oneroso (!) – dal caso in cui esso abbia anche contenuto patrimoniale. Per questa seconda alternativa sarebbe sufficiente modificare appropriatamente le regole del codice civile.

Finalmente le ultime disposizioni – dall’art. 12 all’art. 16 –riguardano la materia che ci interessa, cioè il “testamento di vita”. Come sottolineavo in apertura, mi sembra preferibile ricorrere ad altra terminologia, peraltro privilegiata dai dd.ll.  nn. 1437 e 2279, che si esprimono in termini di “direttive anticipate”.

L’assonanza con il “testamento” favorisce l’idea che queste determinazioni debbano essere affidate a un atto pubblico notarile, il che è una eventualità da scongiurare perché finalità precipua di ogni intervento normativo deve rivolgersi alla più diffusa e semplificata prassi di espressione della volontà, piuttosto che non a formalismi onerosi. Se si preferisce l’atto pubblico, si può attribuire il potere necessario al direttore amministrativo della struttura ospedaliera presso la quale il paziente sia degente, oppure si può circoscrivere l’intervento del pubblico ufficiale all’autenticazione della firma, e in entrambi i casi si potrebbe ricorrere agli uffici comunali; oppure ancora conferire il potere di autenticazione delle volontà inerenti il trattamento sanitario al medico curante, o all’avvocato.  Insomma, occorre rifuggire dai paludamenti e dagli oneri economici. Altrimenti si accredita il timore che la soluzione dei problemi di bioetica sia appannaggio degli happy few, anziché investire ogni persona in quanto tale. La problematica diviene ancor più complessa in caso di revoca, che deve essere effettuata nelle medesime forme, salvo il caso di urgenza in cui si pretendono due testimoni e il medico curante (art. 14).

Se mai, questa potrebbe essere un’alterativa da utilizzare in regime ordinario, anziché essere confinata ai casi d’urgenza.  Non si comprende poi perché le dichiarazioni acquistino effetto solo in caso di sopravvenuta incapacità (ex art. 13): l’interessato capace di intendere e di volere è sempre in grado di revocare o modificare le sue determinazioni. Ancor più macchinosa è la decisione in ordine all’effettiva incapacità prevista dalla disposizione in esame, che pretende di investire un collegio di tre medici, e altre formalità complesse, potendo invece provvedere il medico curante.

Utile è l’istituzione di un registro nazionale, per far sì che le dichiarazioni, comunque espresse, siano produttive di effetti.  Se il Consiglio Nazionale del Notariato fosse disposto a curarlo gratuitamente, questa potrebbe essere la soluzione ideale.  Il dl prevede un procedimento complesso – sul quale non val la pena di indugiare (artt. 15 e 16) – per la registrazione.  L’esenzione fiscale dall’atto appare doverosa (art. 16).

 

Conclusione

 

In conclusione, normativamente parlando, si sarebbe potuto semplificare ogni procedura, se si fosse rovesciato il problema: e cioè se si fosse disposto l’abbandono di ogni terapia diretta alla protrazione artificiale della vita quando la situazione sia senza speranza, a meno che l’interessato non abbia espresso consenso anticipato all’accanimento terapeutico e a ogni tentativo per allontanare il momento del decesso. Ma una scelta di questo tipo, pur in linea con la gran parte della legislazione vigente negli altri Stati europei, non avrebbe alcuna chance di essere approvata. Soprattutto nel momento storico che sta attraversando il nostro Paese.

 

 

 

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Scelte di fine vita

di Lorenzo D’Avack

 

 

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Premessa

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L’eutanasia o le scelte etiche e giuridiche di fine vita suscitano un complesso di riflessioni su tematiche dove soprattutto in gioco sono la dignità della persona con i suoi diritti fondamentali (diritto alla libertà, all’autonomia, all’uguaglianza, alla salute ecc.), il valore della vita e della sua integrità, il valore della professionalità del medico, le scelte giuridiche fatte proprie dalle politiche pubbliche. Ne consegue anche che il dibattito sull’eutanasia si traduce in un confronto multidisciplinare su problematiche morali, mediche, giuridiche, sociologiche ed economiche.

Una prima riflessione da fare è che in una società come la nostra, caratterizzata dalla nuova utopia emergente della salute perfetta1, potrebbe apparire quasi fuori luogo parlare della buona morte. Sarebbe cioè consequenziale pensare che la medicina con i suoi progressi, affiancata dalla tecnica e dalla scienza, abbia accentuato nella nostra società la tendenza a escludere la morte dalle rappresentazioni collettive e quotidiane, relegandola nell’oblio della segregazione ospedaliera.Eppure, avviene qualcosa di diverso e l’ampio dibattito su questa tematica lo conferma. Ci confrontiamo, riflettiamo con sempre maggiore frequenza tanto sulla vita nel momento della nascita, quanto sulla morte. La medicina, le biotecnologie hanno potuto mettere a disposizione dell’uomo previsioni attendibili, strumenti affidabili sui modi e sulle opzioni con cui si realizzano e possono essere vissuti questi eventi e ciò porta a considerarli non come momenti strettamente naturali sui quali non si può intervenire, bensì come aperti, campo di scelta, di autodeterminazione, di diritti. La morte, affidata alla tradizione familiare nel mondo premoderno, poi al medico secondo il paradigma della modernità, pare ora rimessa al morente che diventa protagonista del suo congedo dal mondo.

Siamo al caso dell’eutanasia, termine con il quale generalmente si intende: un comportamento attivo od omissivo da parte di un soggetto finalizzato a una morte indolore di un altro soggetto, assecondandone la sua volontà espressa e consapevole, data contestualmente o anticipata, per liberarlo, in occasione di grave malattia irreversibile e senza speranza di vita, da insopportabili sofferenze o per aiutarlo a porre fine a una vita ritenuta non più dignitosa.

Nell’ambito di detta pratica possiamo dunque incontrare un consenso espresso, contestuale, consapevole del paziente, così come un consenso anticipato e presunto del paziente non più competente. Nel secondo caso ha un peso la presenza di dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico o direttive di vita) con la figura del curatore o fiduciario.  Gli altri due elementi irrinunciabili sono dati dalla presenza di una condizione di malattia irreversibile, dolorosa e ritenuta non dignitosa da chi la vive e dall’intenzione del terzo di operare nel rispetto della volontà di chi richiede l’eutanasia. Una pratica che ricomprende anche il suicidio assistito, che si ha quando è il malato che compie l’ultimo atto che provoca la morte, ma con la determinante collaborazione e assistenza del terzo.

La definizione da noi prescelta risulta idonea a delimitare il fenomeno, escludendo dall’ambito di questa analisi, anche se a volte i richiami non mancano, altre forme eutanasiche in specie tutte quelle che prescindono dalla volontà esplicita del paziente e vengono in certe circostanze cliniche e per diverse ragioni (eugeniche, economiche, solidaristiche e sociali) rimesse alla decisione del familiare, del medico o della struttura ospedaliera.

Certamente questa stessa definizione dell’eutanasia sottolinea una differenza fra comportamento attivo e comportamento omissivo. Una differenza che fortemente si assottiglia, in specie sotto il profilo etico, nel controverso discrimine tra l’agire e l’omettere. L’affermazione secondo cui non vi è differenza moralmente significativa fra il somministrare la dose letale e non avviare o interrompere le misure di sostegno vitale incontra poche opposizioni fra gli studiosi di bioetica. D’altronde, se si guarda al risultato finale non vi è proprio alcuna differenza: sia la somministrazione di farmaci che l’interruzione di trattamenti di sostegno vitale conducono inesorabilmente alla morte. Anche se si guarda al comportamento può essere difficile cogliere una qualche differenza essenziale: è certamente attivo od omissivo mediante azione il comportamento di chi stacca il respiratore, interrompe l’idratazione e la nutrizione, proprio come il comportamento di chi somministra la pozione fatale. Sembrerebbe dunque inevitabile concludere nel senso di una identica valutazione dell’eutanasia attiva e dell’eutanasia passiva: nell’uno e nell’altro caso si tratterebbe di un’attiva causazione della morte. Sotto l’aspetto concettuale si possono a tale proposito richiamare le tesi di alcuni utilitaristi, in specie del filosofo James Rachels, che sostengono l’equivalenza tra uccidere e lasciar morire e pertanto l’irrilevanza della consolidata distinzione tra eutanasia attiva e passiva.  Non ha diversa valenza morale il metodo di interruzione della vita in tutte le situazioni in cui la morte anticipata è per il paziente l’evento più desiderabile.

Tuttavia la differenza permane e ne è conferma il fatto che l’eutanasia, tout court definita pietosa, si sdoppia nella sua forma attiva o passiva per ricevere un diverso giudizio di liceità nei processi formativi della legge, nelle soluzioni giurisprudenziali e suscita difformi reazioni nel sentire sociale.  L’omissione, l’interruzione, la somministrazione appaiono al senso comune, e dal punto di vista psicologico al medico stesso, comportamenti diversi, più o meno attivi, più o meno partecipativi alla vicenda eutanasica. Proprio questa voluta e sentita differenza spiega anche perché diversi Paesi, nell’abbandonare la penalizzazione illimitata di qualsiasi atto di aggressione alla vita, riconducendo le decisioni sulla morte all’autonomia del singolo, abbiano ritenuto opportuno legittimare la sola eutanasia passiva o indiretta (rinuncia a mettere in atto i provvedimenti necessari al mantenimento in vita; interruzione di tali provvedimenti; somministrazione di sostanze i cui effetti secondari possono ridurre la durata della sopravvivenza) e limitarsi a depenalizzare il suicidio assistito. Ne consegue che solo l’eutanasia attiva è vietata e la configurabilità del reato è strettamente legata all’esistenza o meno di motivi egoistici da parte di chi si presta all’aiuto3.

D’altronde, la difficoltà di un’analisi etica e giuridica dell’eutanasia è legata al fatto che essa ha a che fare con la morte voluta dallo stesso soggetto malato, rispetto alla quale l’autore, medico o terzo, è coinvolto e sembra pertanto intaccare uno dei principi fondamentali delle nostre civiltà occidentali, riassumibile nel valore della intangibilità della vita, garantito in termini giuridici dal divieto di uccidere. Differenziare allora l’eutanasia attiva da quella passiva, caratterizzata dall’idea che la natura faccia il suo corso, può indurre a ritenere il problema di più facile approccio e con conseguenze meno traumatiche.

Eppure, se l’eutanasia attiva appare facilmente riconoscibile, quella passiva presenta, soprattutto quando si intraprendono terapie complesse e importanti, non poche incertezze e ambiguità data la difficoltà di distinguere tra corso della natura e conseguenza dell’intervento medico. Tanto più che norme giuridiche e deontologiche sanciscono il divieto dell’accanimento terapeutico, l’insistere cioè con trattamenti di sostegno vitale che appaiono sproporzionati o ingiustificati. Di contro, consentono l’ampio utilizzo delle cure palliative, della terapia del dolore, che tuttavia in più di un’occasione si traduce se non in un’anticipazione della morte stessa, certo in una forte riduzione delle capacità vitali. Tutto ciò attribuisce ora al paziente, ora al medico poteri decisionali che possono

implicare l’anticipazione di quell’evento biologico divenuto incontenibile che è la morte. Poteri decisionali di cui si discutono gli ambiti di liceità: talvolta decisamente considerati penalmente rilevanti e quindi ricompresi nella fattispecie dell’eutanasia attiva, altre volte ritenuti con eccessiva assolutezza casi di eutanasia passiva consentiti. Peraltro, è consistente e motivata quella scuola di pensiero che insiste sulla necessità sociale e giuridica, piuttosto che etica, di conservare la distinzione attivo-passivo, ricomprendendo sia l’una che l’altra nella condanna dell’eutanasia. Si sottolinea la validità della versione del pendio scivoloso (slippery slope) che vuole l’inevitabile effetto di causalità psicologica indurre nella società una graduale passiva accoglienza di

velate pratiche eutanasiche. “La distinzione – osserva J. Childress – tra uccidere e lasciar morire è un’espressione importante

dell’ethos che indirizza la medicina alla vita e alla salute del paziente nella forma della cura personale. Essa sembra essere

strumentale oltre che simbolicamente importante”. Secondo M. Reichlin la proibizione legale dell’eutanasia attiva è l’unica garanzia per poter sviluppare una pratica diffusa e sufficientemente garantita di interruzione di terapie che non prestino facilmente il fianco ad abusi e disincentivi la volontà di collaborazione dei medici.

 

L’argomento del pendio scivoloso è altresì utilizzato da diversi studiosi per avanzare critiche nei confronti di politiche pubbliche che considerano accettabile l’eutanasia volontaria, ma che in tal modo erodono il principio secondo cui la dignità personale è indipendente dalle condizioni precarie in cui la persona si trova. Ciò, si dice, porta a ridurre la distinzione tra le diverse forme di uccisione e a far sì che una volta introdotta l’eutanasia volontaria, anche se vi siano basi razionali per rifiutare quella non volontaria, di fatto questo non si verifica. Non mancano, tuttavia, critiche a queste argomentazioni che tentano di evidenziare il pericolo che passi l’idea che si possa in tal modo arrivare a riconoscere anche la giustezza del togliere la vita senza esplicita richiesta. Un attento studioso di questo dibattito, D. Neri, prendendo spunto dalla legge sull’eutanasia approvata in Olanda precisa che se vi deve essere la

convinzione del medico che l’eutanasia è la sola accettabile via per eliminare la sofferenza, è altresì indispensabile la richiesta

consapevole del paziente e come quest’ultima sia la premessa irrinunciabile: “Resta però fermo che nella definizione di eutanasia largamente invalsa in Olanda è la richiesta valida e non la condizione di sofferenza a costituire elemento imprescindibile anche se, da solo, non sufficiente. Ed è solamente l’eutanasia in questa definizione che viene ritenuta tollerabile, mentre togliere la vita a un paziente in assenza di richiesta non può che restare un omicidio”6. D’altronde argomentare diversamente implica da un lato negare che ognuno abbia la possibilità di assumere un proprio personale atteggiamento di fronte alla morte, in base ai valori da lui scelti per

dare significato alla sua vita, dall’altro attribuire al medico poteri che non gli competono, facendosi in esclusiva carico degli interessi e dei bisogni del paziente. La volontà eutanasica è stata messa in discussione come non autentica, perché, è detto, cela una diversa volontà di essere aiutati a non soffrire.  Un ragionare questo a cui ben potrebbe essere opposta l’argomento del pendio scivoloso, dato che una volta accettato, può risultare difficile l’autenticità e la credibilità di tutte le altre volontà esternate dal paziente verso i trattamenti medici.  È, forse, il caso di riflettere, come ricorda U. Scarpelli, sull’opportunità che in questo delicato passaggio, in questo momento di sospensione tra la vita e la morte, la possibilità etica di lasciare a ciascuno la scelta finale per se stesso prevalga sulla scelta etica di imporre norme e valori per tutti.

 

 

Il dibattito culturale nell’area religiosa e in quella laica

 

Già da queste prime riflessioni appare evidente come il tema si scomponga. Oggi non è corretto limitare in astratto l’indagine all’eutanasia attiva e passiva, perché occorre parlare e almeno distinguere: dignità e qualità della vita, autodeterminazione, consenso informato, cure palliative, accanimento terapeutico, costi economici, rifiuto sociale della morte. Certamente una tematica lacerante per la coscienza umana e che fra le prime domande pone quella del perché tanta incertezza e tante contrapposizioni intorno alla morte assistita, chiesta da un essere umano cosciente che invoca rispetto e dignità, quando quest’uomo è vivo solo per le leggi biologiche dell’organismo.

Una risposta potrebbe essere che è incerto il nostro concettodi vita, che oscilla tra la vita materiale dell’organismo e quella personalizzata dell’individuo che, nelle residue possibilità biologiche del suo corpo, non ritrova alcuna immagine di sé e della sua ragione d’essere. L’incertezza è presente anche sotto il profilo giuridico. Oggi è usuale ritenere che ciò che lega l’individuo alla sua dimensione biologica è una particolare forma di rapporto che non può essere facilmente incasellata secondo le direttrici di diritto privato ovvero di diritto pubblico.  Certo è che negli ordinamenti giuridici il problema della natura del diritto della persona sul proprio corpo non è stato chiaramente risolto. Malgrado la distinzione tra persona e beni, i differenti codici rimangono prevalentemente muti su questo punto.

 

La dissertazione sul diritto di disporre del proprio corpo è riflessione antica. Oggi per la cultura giuridica occidentale è prevalente, ma non univoca, l’idea che il corpo umano non può essere l’oggetto di una convenzione (soprattutto di una convenzione commerciale) né essere ceduto, locato o in altre forme alienato. Questa visione privilegia dunque la nozione di persona su quella di cosa, quella della personalizzazione su quella della strumentalizzazione. Una concezione che è tuttavia contraddetta dal passato antropologico che ha trattato e considerato il corpo umano come oggetto in proprietà, come un bene di cui disporre e sfruttare le risorse. La schiavitù ne è un esempio, così come nel mondo romano la liceità di chiedere l’aiuto di un terzo per darsi la morte.

L’indisponibilità del corpo è un risultato successivo dovuto alla sacralizzazione imposta dalla cultura e dalla tradizione cristiana.  L’essere umano è al contempo anima e corpo, entrambi indissolubilmente legati. Il corpo, come l’anima, appartiene a Dio e acquista in ciò una duplice qualità. Da una parte, esso è sacro e qualsiasi attentato alla sua integrità da parte di terzi è vietato. Dall’altra, la sua disponibilità da parte dell’individuo stesso è ridotta a poco più che zero. Mutilazione e suicidio sono considerati come un attentato al diritto di proprietà divina.

 

La razionalizzazione va ancora più lontana. Poiché il corpo è ormai il luogo dell’anima, il suo contenitore, il suo recettore è dunque intimamente legato con essa, niente può ridurre l’integralità di questa unione: una realtà concreta (il corpo) e un’idea astratta (la personalità) si fondono per così dire in una sola e stessa percezione. Ne consegue che l’uomo ha perduto i suoi diritti sia sul corpo degli altri (impossibilità di asservirlo o di possederlo), sia sul proprio corpo (impossibilità di disporne).  Il passaggio dall’oggetto passivo ed esteriorizzato al soggetto attivo e interiorizzato è un fatto compiuto.

Tuttavia, attraverso la socializzazione teologica del corpo umano si ritrova ugualmente la concezione filosofica fondamentale del diritto di disporre della natura, e di questa fa anche parte la natura umana. Le cose, come il corpo, si fanno allora oggetto di un diritto soggettivo diretto (il diritto di proprietà è un esempio). Ed è nell’epoca moderna, con il giusnaturalismo, che si delinea con maggior chiarezza il rapporto tra l’uomo e la sua sfera biologica secondo criteri dogmaticamente oggettivisti e volontaristi che riducono la dimensione corporea dell’uomo a una cosa sulla quale esercitare una volontà, individuale o collettiva che sia. Questa visione proprietaria che lega l’uomo alla vita in un rapporto del tutto simile a quello che egli intrattiene con le cose si tramanda e arriva pressoché inalterata nelle legislazioni contemporanee8. Ed è sempre in questo periodo che, oltre all’idea della reificazione della corporeità dell’uomo e alla sottomissione di questa alla volontà, si intravede in modo ben preciso quella profonda spaccatura concettuale tra due ideologie che privilegiano la prima l’individuo, la seconda la collettività. Entrambe, è bene ricordarlo, giungono tuttavia come problematiche irrisolte sino all’epoca contemporanea, animando tuttora il dibattito sull’eutanasia, diviso tra titolarità privata e pubblica tutela del corpo.  Aggiungasi che la percezione quasi angelica della corporalità umana tende sempre più a essere relativizzata anche da altre ragioni che brevemente indichiamo.

La prima è, senza dubbio, la presa di coscienza che il corpo umano non può oggi essere percepito, analizzato e regolato dal diritto come un tutt’uno non suscettibile di dissociazione o di frammentazione. Queste differenti componenti (cellule, sangue, cornee, midollo, reni, cuore, polmoni ecc.) sono potenzialmente suscettibili di alienazione, appropriazione, espropriazione e quindi soggette a una valutazione etica e giuridica diversa da quella del corpo considerato nel suo insieme funzionale.  Da ciò consegue una prima breccia nella concezione unitaria, ma anche una prima difficoltà per il diritto (come preservare il principio dell’intangibilità del corpo, ammettendo la dissacrazione delle sue diverse parti?) e le prime contraddizioni apparenti (le parti sono tuttavia degli oggetti?).

Una seconda ragione è consequenziale a una scelta politica: il riconoscimento e poi l’affermazione delle libertà individuali.  Il controllo individuale sul proprio corpo non è più percepito come qualcosa che si inserisce nella problematica analitica di un vero diritto-soggetto, ma come una manifestazione più ampia della libertà individuale. Cessando così di porre il problema della disponibilità del corpo umano unicamente in funzione della validità degli atti giuridici compiuti sullo stesso, questa vicenda è ormai analizzata in termini di potere e di scelta. Il diritto di disporre diviene un potere, una libertà di disporre integrata con l’autonomia e legata al principio dell’autodeterminazione delle proprie azioni nei limiti generali di una responsabilità verso i terzi. Il vantaggio di questa nuova prospettiva è di eliminare le ipoteche poste, nell’analisi privatista, dal dualismo soggetto-oggetto e persona-bene. L’autonomia individuale, percepita come la resistenza dell’essere umano ai divieti, ai limiti imposti dalla collettività (la religione, lo Stato) sul corpo, è ormai esaltata da ben precise correnti di pensiero il cui modello ideologico di riferimento appare in via generale indicato come quello del non cognitivismo etico.

 

Tutto ciò spiega le esitazioni attuali del diritto, ma anche le difficoltà che esso incontra, a inserire il corpo in quella categoria

elastica e incerta dei diritti della personalità, percepiti,organizzati e tradotti in modo differente dal diritto civile, dal diritto penale, dal diritto pubblico e dalla consuetudine. Queste nuove libertà pongono dunque in modo evidente al diritto dei problemi e dei limiti. A fronte del politeismo morale presente nella società, il sistema giuridico cerca dunque di ridefinire il perimetro di esercizio della disponibilità del corpo sempre più estensibile a due livelli: quello della legittimità e della legalità. Sulla posizione della sacralità della vita sono attestate, oltre che dottrine laiche, la Chiesa cattolica e le religioni monoteistiche che, partendo dal concetto che la vita è un dono di Dio e che l’uomo è soltanto usufruttuario del suo corpo, ne chiedono il rispetto incondizionato. Per quanto concerne la Chiesa cattolica questa posizione è stata ribadita dalla Congregazione per la Dottrina della Fede in più di un’occasione e in specie nella Dichiarazione sull’eutanasia (1980) e nell’enciclica Evangelium vitae (1995), in cui forte è il richiamo sul valore etico, non solo religioso ma anche razionale, della vita umana dal suo inizio fino alla morte naturale, specialmente nelle due fasi più fragili, quali sono appunto quella prenatale e quella della malattia grave e della morte. Tale fondazione etica traduce l’eutanasia in una violazione

della legge divina, in una offesa alla dignità della persona umana, in un crimine contro la vita, in un attentato alla umanità9. “Dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore dell’uomo”10. Le tesi a favore dell’eutanasia sono di conseguenza ritenute una delle manifestazioni dell’indebolimento spirituale e morale riguardo alla dignità della persona morente e una via utilitarista di disimpegno di fronte alle vere necessità del paziente. In merito a quest’ultimo aspetto i documenti del Magistero offrono un itinerario di assistenza al malato grave e al morente sotto il profilo dell’etica medica e di quella spirituale e pastorale, ispirato alla dignità della persona, al rispetto della vita e dei valori della fraternità e solidarietà, sollecitando la società a rispondere con testimonianze concrete alle sfide attuali della cultura di morte11. Il cosiddetto principio di autonomia, invocato dalle campagne pro-eutanasia, è ritenuto, poi, strumento per esasperare il concetto di libertà individuale, spingendolo al di là dei suoi confini razionali e non può certo per la Chiesa giustificare la soppressione della vita propria e altrui. “L’autonomia personale, infatti, ha come presupposto primo l’essere vivi e reclama la responsabilità dell’individuo, che è libero per fare il bene secondo verità: egli giungerà ad affermare se stesso, senza contraddizione, soltanto riconoscendo (anche in una prospettiva puramente razionale) d’aver

ricevuto in dono la sua vita, di cui perciò non può essere padrone assoluto”. Si propugnano dunque valori eterni che devono, se necessario, accantonare il benessere e la felicità dell’uomo. Quest’ultimo è solo uno strumento in un disegno più vasto e più alto, un punto su di una linea che viene da lontano e prosegue verso l’eterno. Sebbene il pensiero della Chiesa cattolica si traduca in un principio ostativo di natura religiosa, che vale a circoscrivere l’imperatività di tale giudizio nell’ambito del popolo dei fedeli, senza che se ne possa ricavare una valenza nella prospettiva pienamente razionale dell’etica e una illiceità sul piano giuridico, resta tuttavia che esso ha non poca influenza nel mondo sociale e nelle politiche pubbliche verso un rifiuto alla liceità e legittimazione dell’eutanasia. Nell’ambito del pensiero cristiano e cattolico si possono, tuttavia, sottolineare evoluzioni concettuali e linee di pensiero che tendono ad attenuare un approccio tanto rigoroso. La prima è che a partire dalla fine degli anni Cinquanta l’insegnamento della Chiesa cattolica considera con sempre maggiore insistenza la necessità di lenire la sofferenza del malato

quasi a subordinare ad essa la finalità di prolungare a ogni costo la vita. Né mancano nell’Evangelium vitae affermazioni che attribuiscono al malato stesso la responsabilità della fase terminale della propria vita, pur ribadendo la condanna verso l’eutanasia. “Se non sono disponibili altre cure è lecito con l’approvazione del paziente applicare anche quelle rese disponibili dal progresso medico, anche quando esse non siano state sufficientemente sperimentate e comportino ancora qualche rischio... Allo stesso modo è lecito sospendere l’applicazione di queste cure quando i risultati non corrispondono alle aspettative. In tale decisione si deve tenere conto del giusto desiderio del malato e dei suoi cari come anche del giudizio dei medici specialisti del settore”.

La seconda è che teologi di area protestante quali H. Küng, evangelisti quali W. Neidhart, J. Fletcher e H.M. Kuitert, e cattolici quali P. Sporken e A. Holderegger hanno tracciato una terza via teologicamente e cristianamente definita responsabile tra un libertinismo antireligioso (diritto illimitato al suicidio) e un rigorismo reazionario senza compassione (anche ciò che è insopportabile deve essere accolto come dono di Dio). In sintesi si sostiene che il Dio misericordioso, che si attende dall’uomo responsabilità e libertà per la sua vita, ha anche lasciato all’uomo, che è in procinto di morire, la responsabilità e la libertà di coscienza di decidere il modo e il tempo della sua morte. Una responsabilità che nello Stato e nella Chiesa né un medico né un teologo possono togliergli. Il punto d’arrivo è quello di una disposizione verso la morte che sia diversa, più serena, degna dell’uomo.

Su queste posizioni troviamo un importante documento sulla buona morte della Chiesa valdese che ha confutato il concetto della sacralità e intangibilità della vita come rapporto tra Dio e l’uomo, in cui l’uomo non potrebbe intervenire perché significherebbe prendere il posto di Dio. Si ricorda che: “Per quanto paradossale possa essere, in tale situazione accogliere la domanda della morte significa accogliere la domanda della vita, accogliere il diritto di vivere coscientemente la propria morte”. Ancora, dicono i valdesi: “L’etica cristiana deve fornire delle risposte credibili di fronte alla sofferenza e al dolore, senza proiettarli irresponsabilmente in una dimensione di auto-redensione. Sono visioni dell’esistenza da accettare, ma anche da combattere”.

Il concetto di vita, quello personalizzato dell’individuo, che spinge alla depenalizzazione dell’eutanasia pur con criteri di accuratezza, è fatto proprio dalle posizioni prevalentemente laiche. Chi muove da una concezione personalistica ritiene che la vita non sia semplice animazione della materia e che questa si identifichi con il rispetto dell’individuo, della ragione, della sua dignità e libertà. Pertanto, il problema dell’eutanasia non mette in gioco il valore della vita che prolifera ovunque, ma il valore dell’individuo, dell’uomo che in certe condizioni può non ritenersi più degno di sé e può quindi sentirsi in diritto di decidere di porre fine a un’esistenza in cui non si riconosce più, che vede tradursi in un processo biologico che, grazie all’assistenza tecnica, procede nella sua anonima irreversibilità.

In queste circostanze la domanda maggiormente problematica è se noi possiamo essere insensibili al rischio del rifiuto sociale della compassione. È il principio di beneficenza che viene richiamato, “che comporta non solo un generico atteggiamento di benevolenza nei confronti degli altri, ma anche un concreto impegno (che per il medico è anche un dovere professionale) ad aiutare gli altri a conseguire ciò che è nel loro interesse”17. Scuole di pensiero motivate spingono, dunque, affinché lo Stato non obblighi i suoi cittadini alla mistica della sofferenza e del sacrificio. Tanto più che quello dell’eutanasia è un problema individuale che si richiama ad altri due concetti laici: il diritto all’autodeterminazione responsabile e la tolleranza verso le diverse scelte delle persone quando non offendono diritti altrui.

Siamo frequentemente nell’ambito di quelle correnti di pensiero, già menzionate, caratterizzate da un prevalente liberalismo, da un forte individualismo, da principi di utilitarismo, usa ricordare che le società democratiche non possono far ricorso a un’etica condivisa, a un’autorità morale unica18. Di fatti in merito ai problemi concernenti la vita e la morte, le famiglie filosofiche e spirituali che compongono le società pluraliste si mostrano di diverso avviso: ed è radicale l’impossibilità di stabilire filosoficamente la verità morale particolare. A fronte di questa diversità di opinioni si promuove il diritto assoluto delle singole comunità morali a operare scelte sulla base dei paradigmi interni che le guidano, senza riferimenti a una ragione sovracomunitaria e alla sua esigenza di universalità, purché tutto ciò avvenga senza violenza, costrizione fisica e danni rilevanti per altri soggetti. Ne consegue che l’autonomia rimpiazza la libertà nel connotare l’atto di scelta responsabile di una persona, che tiene in conto gli effetti e gli interessi correlati alla propria azione che possono derivare verso se stesso e verso i terzi.

Nel caso dell’eutanasia si evidenzia come questa scelta non possa tradursi in un danno a terzi. Anche a voler tenere conto di un interesse particolare collettivo della società, pare arduo sostenere che esso risulti messo a rischio dall’anticipazione della morte su richiesta di un malato terminale e altrettanto arduo individuare quale interesse dello Stato sarebbe prevalente rispetto a quello dell’individuo a una morte che lo liberi da insostenibili sofferenze o da una vita immeritevole di essere continuata. Si aggiunge, altresì, che è problematico sostenere che l’eutanasia si porrebbe con certezza in contraddizione con l’inviolabilità del diritto alla vita, ritenuto un diritto fondamentale da tutti. Anche chi sostiene la liceità dell’eutanasia non disconosce il principio che uccidere è deontologicamente sbagliato. Pone però la questione se il diritto all’inviolabilità della vita riguardi la vita altrui o anche la propria e se, in questo caso, comporti anche il dovere di vivere a tutti i costi.  Robert Veatch, un attento studioso di questo problema, precisa che uccidere è la violazione di un principio che rende sempre sbagliate moralmente le azioni che lo contemplano. Tuttavia, vi possono essere situazioni in cui il divieto entra in conflitto con altri principi deontologici, in specie “rispettare l’autonomia” e “trattare gli altri con giustizia”, e in questi casi è ammissibile che una scelta di fine vita da parte di un paziente competente che implichi un atto eutanasico sia ritenuta moralmente lecita19. Dal complesso di queste e di altre argomentazioni i fautori di una libera scelta di fine vita ricavano la regola che a ogni cittadino dovrebbe essere consentito di avere le proprie idee e di compiere le proprie scelte etiche, esprimendole senza timore, con l’unico compito per lo Stato di procurargli condizioni in cui dette scelte possano divenire effettive. È quanto in realtà avviene nel modello legislativo fatto proprio dall’Olanda, dove non si rintraccia una valutazione degli interessi in

gioco da parte dello Stato, un bilanciamento che comporti un giudizio di prevalenza di un interesse sull’altro. Si stabiliscono criteri di accuratezza (esistenza di oggettive condizioni fisiche del paziente, diagnosi medica, consenso informato, testamento

biologico ecc.) i quali garantiscono in maniera neutra la tutela dell’interesse a porre fine alla propria vita, affidando la soluzione di tale conflitto direttamente ai soggetti coinvolti.  Lo Stato accetta la richiesta consapevole e informata di fine vita preoccupandosi soltanto che i criteri procedurali siano rispettati.

 

Da un punto di vista culturale generale, questa concezione può essere considerata come un’indiretta conseguenza della progressiva secolarizzazione delle società occidentali, le quali si stanno allontanando da un modello di pensiero integralista e religioso della vita fatto proprio per lungo tempo. Si pensa che lo Stato debba ritirarsi dal suo antico, tradizionale ruolo di difensore di valori morali, che debba perdere in certo senso il carattere di Stato etico facendo proprie posizioni di laica neutralità.

 

Nella vicenda eutanasica si vuole passare soprattutto da una situazione in cui il paziente è oggetto della decisione del medico a una in cui il primo diviene protagonista di questo processo, della sua malattia, acquistando quella piena soggettività e autonomia morale che trova radice nei diritti fondamentali alla salute, alla libertà, all’uguaglianza e alla dignità.  Tutti diritti che conducono all’autodeterminazione, al suo riconoscimento come diritto umano, piuttosto che non alla sua regolamentazione da parte dello Stato, perché trattasi di una prerogativa che attiene alla persona in quanto tale. Riconoscere il diritto di autodeterminazione significa riconoscere all’individuo la possibilità di scegliere tra opzioni diverse per quanto riguarda la propria salute, le proprie malattie, le proprie esigenze.  Negarglielo conduce alla tutela assoluta della vita in qualsiasi momento e in qualsiasi condizione anche contro la volontà del suo titolare, come un bene che la società e lo Stato hanno il dovere di salvaguardare.

 

 

Accanimento terapeutico e cure palliative

 

Il rifiuto dell’accanimento terapeutico e l’utilizzo ampio delle cure palliative, così spesso ribaditi nei documenti nazionali e internazionali, sono principi richiamati da chi sostiene che il problema dell’eutanasia, se poteva essere in passato oggetto di discussione (quando non vi erano rimedi efficaci contro il dolore e quando ci si doveva difendere dagli eccessi della medicina), sembra ora perdere valenza etica e apparire richiesta meno motivata. Il paziente, libero dal dolore e alleviato dalle proprie sofferenze, non ha motivo di chiedere al medico di essere aiutato a morire. Così, scelte fortemente problematiche quali l’eutanasia e il suicidio assistito, al di là di una loro eventuale condanna, sono considerate assolutamente inutili.

 

Ma su quest’ultimo aspetto avanzo qualche riflessione critica. Certo, la medicina palliativa ha fatto notevoli passi in avanti nel controllo del dolore fisico, come accade nella fase terminale di molte malattie oncologiche. Teoricamente poi la soluzione appare appetibile, non dà luogo a dispute dottrinarie dato che sull’applicazione delle cure palliative concordano le principali correnti di pensiero, sia quelle pro life che quelle pro choice. Tuttavia, come già ricordato, è poco convincente l’idea della medicina palliativa come vicenda nettamente distinta dall’eutanasia o come soluzione ad essa sostitutiva. Infatti, la maggior parte delle terapie di

sedazione, in cui è persistente lo stato di incoscienza del paziente e ogni forma di relazione interindividuale e affettiva è interrotta, costituiscono una vera e propria forma di morte anticipata. L’equivalenza di fatto della pratica, almeno in diverse situazioni mediche, con l’eutanasia attiva è difficilmente contestabile. Come è stato osservato, se differenza vi è questa sta nel fatto che la sedazione terminale permette di raggiungere lo stesso risultato dell’eutanasia attiva senza impegnare il medico e le famiglie in una decisione forte, e in molti Paesi giuridicamente illecita, come quella dell’eutanasia attiva21. Peraltro, la richiesta di un aiuto terminale non avviene sempre a fronte di dolori fisici e in prossimità della morte, ma anche a seguito di malattie ben più prolungate nel tempo che generano stati irreversibili, di qualità di vita deprecabile, di incapacità nel fronteggiare situazioni elementari di sopravvivenza.  Oltre a ciò, è da dire che anche le cure palliative non potrebbero essere imposte e dovrebbero presupporre un consenso informato del paziente di modo che al malato terminale sia lasciata la possibilità di scegliere ed eventualmente di preferire a tali trattamenti la soluzione anticipata. Di contro, è ben più probabile che la sedazione sia per lo più decisa dal medico in un’ottica di beneficenza. Così non mancano rischi di una eutanasia involontaria rimessa come scelta al giudizio tecnico del medico che potrebbe decidere di abbreviare la vita del paziente in nome delle proprie competenze e del bilancio tra danni e benefici connessi alla prospettiva di cura.  Ho l’impressione che quando si pensa di risolvere il problema dell’eutanasia attraverso il rifiuto dell’accanimento terapeutico e la medicina palliativa si intenda non tanto richiamare l’attenzione sulla necessità di rendere la morte oggetto di autodeterminazione, quanto di distoglierla, escludendo qualsiasi condotta che comporti una decisione da parte del paziente e ricadendo necessariamente nella decisione del medico, in ciò che è stato indicato come esercizio di onnipotenza, dato che è rimesso a quest’ultimo di stabilire quando la cura non abbia più significato. È come se il medico potesse sovrapporsi alla natura quando cura e ritirarsi per lasciare che la natura faccia il proprio corso quando sospende la terapia. Ne consegue che dipende esclusivamente dal medico trattenere il paziente in vita.

 

 

Il diritto a morire nel nostro ordinamento giuridico

 

È opportuno domandarsi se esista nel nostro ordinamento giuridico un diritto a morire, come prerogativa che trovi garanzia del suo accoglimento. Si può con certezza sostenere che non trova alcun riconoscimento e tutela la richiesta di fine vita attraverso la collaborazione attiva dell’operatore sanitario o di un terzo, ricadendo di contro situazioni di tal genere fra i reati di omicidio (art.  575 c.p.) o di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) o di suicidio assistito (art. 580 c.p.)23. Molto più incerte sono le conclusioni sulla legittimità del rifiuto delle cure fino al conseguimento della morte (eutanasia passiva). Richiamandomi in modo molto sintetico al dibattito in corso, ricordo che in discussione sono norme costituzionali, norme di diritto positivo nonché norme deontologiche.

Parte della dottrina e della giurisprudenza richiamano gli artt. 2, 3, c. 1, Cost. per sostenere l’illegittimità di procedure, di scelte, di modalità di esercizio dell’autodeterminazione del soggetto in ordine alle cure mediche che, in termini puramente oggettivi, possano risolversi in un pregiudizio o addirittura nel sacrificio del diritto alla salute. La stessa formula dell’art. 32, c. 2, Cost., che come vedremo più avanti, è utilizzata da una parte della dottrina per un incondizionato sostegno al principio di autodeterminazione nel contesto dell’eutanasia, è ritenuta di contro inidonea a rimuovere le consolidate disposizioni legali poste a tutela della vita. “La norma costituzionale, in realtà, non si occupa minimamente del caso in cui sia in gioco l’alternativa fra vita e morte nell’ambito della relazione fra medico (o altro soggetto che abbia obblighi di tutela) e paziente. Essa, piuttosto, attiene agli interventi che invadono la sfera di salvaguardia della salute, sfera che viene riservata per l’appunto al rapporto del malato col sanitario, salvo contraria disposizione di legge entro i limiti imposti dal rispetto della persona umana”24.

Ancora, si ricorda che il diritto ad autodeterminarsi in ordine alle terapie incontra limitazioni nell’art. 5 c.c. che va letto non solo con riferimento all’aspetto positivo (diritto di disporre del proprio corpo), ma anche a quello negativo (diritto di rifiutare le cure fino a consentire la morte). Ne consegue, nel rispetto del dato letterale della norma codicistica invocata, che risulteranno vietati tutti quegli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica non controbilanciati da effettive necessità terapeutiche di natura fisica e psichica. Si ribadisce poi che l’art. 5 c.c. è stato concepito con riferimento al consenso di cui all’art. 50 c.p., con la finalità di fornire precisi parametri normativi in ordine ai limiti di disponibilità del diritto all’integrità psico-fisica25.

Un complesso di norme che pongono altresì l’accento sulla dimensione collettivistica del diritto alla salute, di modo che, se è vero che il nostro legislatore riconosce ex art. 2 Cost. i diritti inviolabili dell’uomo, e quindi anche il diritto alla salute, è pur vero che nella stessa norma a tale garanzia corrisponde l’adempimento di altri doveri inderogabili quali la solidarietà politica, economica e sociale.

Pertanto, secondo questa dottrina giuridica il valore dell’autonomia individuale è considerato subordinato ai beni della vita e della salute recepiti come interesse collettivo. Si sottolinea soprattutto, facendo un raffronto con il suicidio, come quest’ultimo riguardi in maniera intima e personalissima il singolo individuo, così da potersi considerare un atto “privato”, di contro l’eutanasia è un atto eminentemente “sociale”. Essa coinvolge infatti di necessità almeno un’altra persona e pertanto esce dall’autonomia e rientra nella eteronomia, nel dominio dei rapporti intersoggettivi di cui primariamente si occupa il diritto.

Di contro, altre correnti di pensiero hanno ammonito a non trarre dal diritto alla salute di cui alla norma costituzionale (art. 32, c. 2) conclusioni negative e affrettate, dato che la norma fa della salute oggetto di un interesse della collettività, ma al tempo stesso la riconosce come diritto fondamentale della persona, come a dire che la norma contiene, sia pure in maniera indiretta, anche il principio della libertà del trattamento sanitario e quindi della legittimità del rifiuto della cura. Diritto ad autodeterminarsi in ordine alle cure al quale si può derogare solo in via eccezionale sul presupposto di una espressa disposizione di legge che obblighi al trattamento medico. Aggiungasi gli artt. 2 (inviolabilità dei diritti dell’uomo anche nei confronti dello Stato), 3, c. 2 (compito dello

Stato di rimuovere gli ostacoli di qualsiasi natura per assicurare il pieno sviluppo della persona umana), 13 Cost. (inviolabilità della libertà personale) che costituiscono un complesso di norme che, garantendo con assoluta priorità i beni fondamentali della persona, sanciscono il cosiddetto principio personalistico che, contrapponendosi all’opposta concezione utilitaristica dei beni della persona, considera l’uomo un fine in sé e preclude ogni sua strumentalizzazione per fini collettivistici26. Ne consegue che per questa scuola di pensiero anche il diritto di non curarsi fino a lasciarsi morire, in quanto espressione dei diritti e delle libertà attinenti alla persona umana, ha carattere inviolabile e trova nell’ordinamento giuridico la garanzia del suo accoglimento e della sua tutela.  Serrata su queste premesse è poi la critica alla lettura dell’art.  5 c.c. come ulteriore limite al riconoscimento del diritto di anticipare la fine della propria vita rinunciando alle cure di sostegno. Innanzitutto, l’obiezione pressoché scontata che ogni norma ordinaria vada interpretata in conformità al dettato costituzionale e che pertanto gli articoli sopra ricordati, in specie l’art. 32 (nell’interpretazione che ne viene data), non possano consentire una lettura lesiva del principio personalistico.  Si sostiene poi che l’art. 5 c.c. non può essere dilatato fino a farvi rientrare gli atti di autolesione e che il vincolo della disponibilità della vita e dell’integrità opera solo

nei confronti delle aggressioni manu alius, non anche nelle ipotesi di autoaggressione che si pongono in uno spazio giuridico vuoto e dunque consentito. Infine, come ricordano diversi giuristi, proprio sull’art. 5 c.c. si fonda, anche ante Costituzione, il diritto alla libera disponibilità del proprio corpo in ambito sanitario e in particolare il diritto di autodeterminazione terapeutica.

 

Tutto ciò dovrebbe portare alla conclusione che, pur in assenza di un’espressa formulazione, dalla lettura del nostro ordinamento giuridico sia possibile desumere l’esistenza del diritto di morire attraverso la richiesta di un comportamento omissivo da parte di un terzo e l’esercizio del diritto alla libertà di trattamento sanitario27. Ma in verità non è difficile evidenziare come lo sforzo ermeneutico di questa tendenza dottrinale non consenta di trarre da tali norme tutti i possibili significati del diritto di morire con dignità. Soprattutto, come già scritto, non è certo quale sia lo spazio consentito dal nostro ordinamento alla legittimità

dell’eutanasia passiva consensuale e se la tutela, sempre e comunque, della vita come valore in sé debba cedere il passo alla

qualità della vita. Un siffatto rischio, una tale incertezza non potrebbero che essere sanati attraverso un nuovo assetto legislativo

che chiarisca ciò che è lecito fare e ciò che invece è illecito in quelle fattispecie di disorientate e disorientanti letture (ad esempio, sopravvivenza del soggetto in forza del funzionamento di una macchina già attivata o di idratazione o di alimentazione artificiale)28. Anche in considerazione del fatto che esistono certamente i diritti dei malati, ma che vi sono anche i diritti dei medici e loro diritto primario è conoscere con sufficiente certezza se determinati comportamenti costituiscono reato.

 

Peraltro, allo stato attuale di assoluta incertezza nell’individuare i principi giuridici su cui fare affidamento per mitigare l’imposizione penale si denuncia una discriminazione fra i malati stessi. Discriminazione in specie tra coloro che sono in condizione di anticipare la propria morte col suicidio o il rifiuto delle cure e coloro che, per le particolari condizioni di malattia nella quale si trovano, non sono in condizioni di farlo o di farlo in modo dignitoso e senza una maggiore sofferenza. Ancora, ulteriore discriminazione è ravvisabile nella decisione necessitata per il paziente, se vuole vedere rispettata la sua volontà di non intraprendere una cura o di sottrarsi ad essa, di restare fuori dall’assistenza medica, almeno dalla struttura ospedaliera, così da non chiamare in causa il medico. Si giunge in tal caso a tradurre il diritto di autonomia privata in un diritto solitario che il paziente può esercitare in isolamento, circondato dalla prudente diffidenza di qualsiasi soggetto terzo (familiari, medico di famiglia, amici, infermieri) preoccupato di eventuali conseguenze penali. Di modo che, attraverso il richiamo agli artt. 13 e 32, c. 2, Cost., parte della dottrina sostiene che le norme del codice penale che puniscono l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio sono censurabili di incostituzionalità per violazione dei principi di uguaglianza e di libertà, almeno per ciò che concerne i malati terminali o inguaribili.

Si evidenzia, altresì, come le norme che sanciscono la illiceità delle scelte di fine vita siano in contrasto con la significativa e sempre più attuale evoluzione del sistema giuridico verso l’idea che l’ordinamento sia al servizio della libertà e dell’autonomia individuale nell’ambito non solo degli interessi patrimoniali, dominati dalla piena disponibilità, ma anche dei diritti della persona che attengono agli stati, diritti che oggi alcuni giuristi chiamano esistenziali, che si ricollegano alla privacy e che toccano tutta la vicenda umana dalla nascita alla morte29.

Queste contestazioni spiegano anche perché vi siano state molteplici proposte di riforma verso la delineazione di una legittimità dell’eutanasia passiva o deresponsabilità di chi vi partecipi. Fra le diverse proposte se ne possono ricordare almeno due.

La prima, che cerca di mediare tra il principio di indisponibilità della vita manu alius e il principio solidaristico e individualistico

della scelta di vita e che conduce verso il riconoscimento dell’eutanasia consensuale come reato autonomo con una pena contenuta. Questa soluzione legislativa ha trovato una sua reale considerazione in Spagna in occasione del nuovo codice penale del 1995, in cui nella fattispecie di suicidio assistito o di omicidio del consenziente affetto da gravi sofferenze non sopportabili che lo condurrebbero alla morte, la soluzione è stata quella dell’attenuazione del trattamento sanzionatorio. La seconda, ben più radicale, orientata,

a similitudine di altre legislazioni europee, verso il riconoscimento della impunità dell’eutanasia passiva. Quest’ultima ipotesi è generalmente corredata dal riconoscimento dell’obiezione di coscienza per il personale sanitario di cui si chiede il coinvolgimento e da precise condizioni indicate come criteri di accuratezza30. Né maggior chiarezza può essere offerta all’interprete andando a verificare quale sia la portata del riconoscimento della libertà e dell’autonomia individuale nelle Convezioni e nelle Carte europee che rappresentano un richiamo obbligato per il nostro Paese. Si tratta della Convenzione europea dei diritti dell’uomo con gli artt. 2, 3, 8 e 1431; la Convenzione europea sui diritti dell’Uomo e la biomedicina con gli artt. 2, 5, 8 e 9; Riassumibili in via molto generale nei seguenti: a) lo stato di salute del paziente, caratterizzato da condizioni terminali con dolori insopportabili, che consistono nell’incurabile stato patologico, per il quale un eventuale ricorso a terapie di sostenimento vitale condurrebbe all’unico risultato di ritardare il momento della morte; b) il consenso del paziente (testamento di vita o direttive anticipate), dato attraverso un documento formale scritto; c) la possibilità per il medico di essere coinvolto nella vicenda eutanasica solo per i suoi pazienti, dei quali conosce la storia, ed eventualmente di ottenere l’approvazione di un comitato medico o l’autorizzazione del giudice; d) la necessità che l’eutanasia sia praticata in una “modalità appropriata”.

31 Queste norme furono richiamate per sostenere dinnanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo le ragioni di D. Pretty, affetta da una malattia neurologica degenerativa e priva di movimento autonomo, che invocava la possibilità di avvalersi del marito, dichiaratosi disponibile, per essere aiutata a morire senza che quest’ultimo rischiasse una condanna penale.  Con sentenza del 29 aprile 2002 il ricorso fu rigettato sul presupposto che non vi era stata violazione della Convenzione e che in specie quel complesso di norme richiamate non consentono un riconoscimento di un diritto a morire (“Pretty vs. The United Kingdom”, Strasbourg 29 aprile 2002, Bioetica, n. 2, 2002, pp. 322 ss.).

 

la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea con gli artt. 1, 3, 21 e 35.

 

Anche verso questi documenti le chiavi di lettura sono infatti diverse e opposte. Per i fautori della scelta di fine vita e della legittimità al rifiuto delle cure tutte queste Carte garantiscono il diritto alla vita, ma il diritto alla vita è anche diritto di scelta, relativamente al vivere o morire. Ciò perché non si tutela la vita in sé, bensì il diritto alla vita da intendersi come diritto disponibile da parte di chi ne è titolare. Così spetterebbe all’individuo scegliere se continuare o smettere di vivere in modo da sfuggire a una sofferenza e a una mancanza di dignità inevitabile. Da questa premessa, altri principi, poi, quali la condanna dei trattamenti degradanti, il rispetto della vita privata e familiare, il divieto dell’accanimento terapeutico, conducono a un diritto di autodeterminazione. E tale diritto comporterebbe certamente quello di disporre del proprio corpo e di decidere cosa farne. Implicherebbe il diritto di scegliere quando e come morire, perché niente sarebbe più intimamente legato al modo in cui un individuo conduce la propria esistenza delle modalità e del momento del suo passaggio a miglior vita.

Tuttavia, questa lettura è fortemente contestata. La Corte europea dei diritti dell’uomo, come già ricordato, nel richiamare il dato normativo offerto dall’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha escluso la sussistenza di un diritto all’autodeterminazione che darebbe a ogni individuo la possibilità di scegliere la morte piuttosto che la vita. In modo altrettanto opposto alle tesi eutanasiche si interpreta il principio che ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata in modo da non comportare un diritto di morire dato che quest’ultimo implicherebbe l’estinzione del principio stesso sul quale si fonda. Ancora, si ribadisce che lo Stato, nei limiti del proprio potere discrezionale, è legittimato a stabilire la misura in cui gli individui possano consentire di farsi infliggere lesioni e pertanto a impedire che qualcuno possa essere ucciso, pur con il suo consenso.

Proprio questa interpretazione si integra con l’altro principio che nessuno può essere sottoposto a tortura, a pene e a trattamenti inumani o degradanti. Obblighi negativi di cui è destinatario lo Stato, diversamente da quanto sostiene la dottrina eutanasica che li trasforma in obblighi positivi. Ma, così facendo, quest’ultima dimentica che, non trattandosi di obblighi assoluti, per valutarne la portata e l’applicazione è opportuno aver riguardo al margine di discrezionalità legittimamente riconosciuto allo Stato in modo da non imporre alle autorità un onere insostenibile o contrario a scelte del proprio diritto comune.

Un problema ulteriore può essere rappresentato dall’utilizzo frequente nel testo giuridico e nei documenti richiamati del termine capacità che giuridicamente si identifica nella capacità di agire, di cui i minori e i maggiorenni incapaci di intendere e di volere sono privi. Sappiamo che il rispetto dell’autonomia del proprio corpo e della propria libertà spetta soltanto alla persona interessata all’atto medico, ma non sempre è facile individuare come applicare questo principio all’infanzia, come attribuire e riconoscere al minore la pienezza della propria decisionalità32.

In via generale si può osservare come in materia di eutanasia pietosa nei confronti di queste categorie di persone non sia facile rintracciare quei diritti costituzionali di riferimento o quelle regole etiche che poggiano prevalentemente sui principi di autonomia e di beneficenza. Questi ultimi non possono essere rivestiti di significato se non da parte del soggetto medesimo in favore del quale sono invocati. Tuttavia, disconoscerli tout court può creare una situazione di disuguaglianza tra i cittadini sulla base di differenze non sempre oggettivamente valutabili. Minori oppure persone incapaci possono in ogni caso essere in grado di valutare le proprie situazioni e di esprimere una volontà consapevole riguardo il proprio corpo, di modo che non sarebbe legittimo che nell’ambito di queste scelte il potere decisionale fosse rimesso in esclusiva a chi li rappresenta, secondo i principi ordinari in tema di potestà e di tutela. Si osserva inoltre che in queste fattispecie non è in evidenza la capacità legale, bensì quella naturale, non rilevando in argomento soglie formali tipiche dell’atto negoziale quali età, interdizione o inabilitazione. Tanto più che lo status di incapace, così come quello di minorenne, è stato dagli ordinamenti giuridici pensato allo scopo di tutelare i soggetti prevalentemente in ambito economico. Emergono allora interrogativi complessi che il legislatore non può trascurare.

Si può consentire o negare a una persona gravemente malata di porre fine alla propria vita, divenuta insopportabile e priva di qualsiasi dignità personale, sul presupposto che esistano i requisiti della maggiore età o della piena disponibilità dei propri diritti? Si può ritenere che la capacità/incapacità legale coincida a tal punto con quella naturale da coinvolgere tutti gli ambiti della vita di una persona, compreso quello della sua salute e del rispetto della sua persona? È possibile, infine, che a fronte di situazioni di tal genere la decisione sul consenso/ dissenso relativamente alle cure mediche ricada unicamente sui genitori e/o tutori nelle loro funzioni di rappresentanti, adottando scelte in ottemperanza al principio di beneficenza, senza tener conto della volontà del malato?

Questi e altri interrogativi, che coinvolgono paziente, genitore, operatore medico, strutture sanitarie e Stato, possono ricevere risposte diverse, a conferma della difficoltà di regolamentare una situazione così complessa e non riconducibile a valutazioni di tipo oggettivo.

Tanto più poi se si considera che il minore vive uno status transitorio e che la sua posizione non può prescindere dall’età,in base alla quale nell’ambito dell’ordinamento giuridico vengono accordati spazi di libertà via via crescenti. Impossibile dunque considerare la categoria dei minori come una categoria uniforme. La cultura giuridica dominante diversifica fasce di età contraddistinte da livelli sempre più ampi di capacità di agire, di responsabilità e di maggiore idoneità a valutare i propri interessi e le proprie scelte33. Ne consegue che il problema del rispetto dell’autodeterminazione del malato si pone in modo ancor più drammatico nell’ipotesi in cui il paziente sia ricompreso fra coloro che la giurisprudenza chiama grandi minori: soggetti che della legale capacità sono privi, ma già dotati di sufficiente maturità.

Dalla Convenzione sui diritti del fanciullo (ONU, 1989), ratificata e resa esecutiva sia in Italia che in molteplici Paesi del mondo, emerge chiaro e forte l’obbligo che “le opinioni del fanciullo vengano prese in considerazione, tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità” (art. 12). Un diritto a essere ascoltato che trova conferma nella Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina in cui all’art. 6, c. 2 si legge che “il parere del minore è considerato elemento determinante in funzione dell’età e del suo livello di maturità” e dove all’art.  24 si precisa che i bambini “possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità”34.

33 Ricordo che il nostro ordinamento giuridico distingue diverse età prima dei 18 anni sia nell’ambito penalistico per quanto concerne la punibilità, sia nel diritto di famiglia e delle persone (capacità di contrarre matrimonio, affido, adozione ecc.), sia in materie quali l’aborto, la sperimentazione e il trapianto.

34 Questi principi sono stati tenuti in conto anche dalla nostra giurisprudenza che ha ritenuto non valido il consenso espresso da uno dei parenti quando il paziente è capace di intendere e di volere, ritenendo quest’ultimo l’unico soggetto legittimato a consentire trattamenti che incidano sul proprio corpo e sulla qualità della propria vita (Trib. Milano 14 maggio 1998, Nuova giur. civ. comm., 2000, p. 405). Le cronache poi ci informano con sempre maggior frequenza di istanze rivolte al giudice minorile nell’ambito di procedimenti finalizzati a ottenere l’autorizzazione alla somministrazione di terapie urgenti a soggetti incapaci, contro il diniego posto dai rappresentanti legali. Come pure di istanze per l’interruzione dell’alimentazione e idratazione artificiale, o di terapie eseguite su malati in stato vegetativo permanente.

Anche sulla base dello stesso Codice di deontologia medica (artt. 33 e 34), l’opposizione del rappresentante legale al “trattamento necessario e indifferibile” non è efficace per il minore ed è consueto che il medico finisca per informare l’autorità giudiziaria. A tale proposito, la giurisprudenza minorile ha affermato che il controllo e l’intervento del giudice sull’esercizio della potestà ex art. 330 c.c. deve limitarsi ai profili di violazione dei doveri o di abuso dei poteri a fronte di scelte genitoriali che non appaiono fatte nell’interesse del minore. È evidente comunque come l’interesse del minore sia una di quelle formule ad ampio contenuto che lascia piena discrezionalità al giudice nella sua scelta, tanto più quando si finisce per sostenere, come avvenuto in alcuni provvedimenti adottati dal Tribunale per i minori, che in sede giudiziaria non vi è spazio per valutazioni comparate sulle terapie di contrasto alla malattia35.

 

A fronte di certe difficoltà, date anche dal già menzionato presupposto che il bambino è un essere umano in formazione continua, le organizzazioni internazionali, ma anche i medici, auspicano sovente che in una futura legislazione sia data l’indicazione di una età limite precisa con riferimento alla quale si possa o meno parlare di autonomia del minore36. Ma anche questa soluzione suscita perplessità “perché in realtà l’accrescimento del bambino non solo fisico, ma anche psicologico e morale, non ha una velocità di trasformazione, di adattamento, uguale per tutti e univoca, individuabile su base statistica e circoscrivibile a una precisa età”37. Si può allora solo procedere per verifiche nelle singole fattispecie sulla maturità conseguita per poter riscontrare autonomia e consapevolezza del minore, considerato che entrambe sono situazioni dinamiche progressive. Emblematiche in questo senso le scelte operate dal legislatore olandese in materia di eutanasia con richiami soprattutto alla valutazione delle capacità dei minori che chiedono il suicidio assistito (limiti di età, ragionevole valutazione dei propri interessi al riguardo, accordo con la decisione del minore da parte dei genitori e/o del tutore). Scelte che confermano la non opportunità di stabilire criteri rigidi che fissino l’acquisizione della piena capacità di agire e come, di contro, sia necessaria una valutazione caso per caso della capacità di ogni singolo minore che si trovi in quella specifica situazione.  Certo è che bisogna però credere nel diritto del minore a un assenso o dissenso consapevole, perché anche di fronte a situazioni di accanimento terapeutico gli adolescenti riescono a prefigurarsi il futuro e ad assumersi la responsabilità di fronte al proprio progetto di vita. Pertanto, l’assenso/dissenso informato del minore, insieme con quello dei genitori o del tutore, è pienamente concepibile e dovrebbe sempre essere richiesto non soltanto per una esigenza giuridica o etica, ma soprattutto per far comprendere al minore-paziente la sua esperienza e creare una necessaria alleanza tra il medico e il bambino.

 

 

Dichiarazioni anticipate di trattamento

 

È frequente, e le legislazioni sul tema lo dimostrano, che la scelta di fine vita sia ricollegata alle dichiarazioni anticipate di trattamento. Denominazione questa che, unitamente ad altre analoghe (living will, testamento biologico, direttive anticipate,

testamento di vita), fa riferimento “ad un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato”38.

Tuttavia, è opportuno precisare da subito che è errato ritenere che le dichiarazioni anticipate implichino di per sé l’ammissibilità dell’eutanasia. Le dichiarazioni e l’eutanasia rientrano nella vicenda di fine vita, ma sono due problemi diversi, logicamente indipendenti e vanno trattati separatamente. Le dichiarazioni anticipate servono a dare indicazioni in merito alla volontà del paziente, utilizzabili quando questi non può far valere di persona le proprie scelte. In questo senso esse sono uno strumento dell’autonomia dei malati e non hanno nessuna implicazione eutanasica necessaria. Esse possono prevederla, ma possono anche includere precise clausole di esclusione dell’eutanasia, anche qualora essa fosse legislativamente riconosciuta.  Così come potrebbero contenere indicazioni di una prosecuzione delle cure al di là delle cautele suggerite al medico affinché si eviti l’accanimento terapeutico.

Le dichiarazioni anticipate sono dunque un ulteriore strumento che rafforza l’autonomia individuale e il consenso informato nelle scelte mediche o terapeutiche, tanto più che, come già ricordato, grazie alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 1 e 3) e alla Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (artt. 5, 6 e 9), questi principi acquisiscono nuovo e maggior rilievo, non soltanto coinvolgendo i doveri professionali del medico e la legittimazione dell’atto medico, ma dando sostanza al diritto del cittadino europeo all’integrità della persona e al rispetto delle sue decisioni.

Rilevo tuttavia che molte delle critiche nei confronti delle direttive sono generate proprio da una diffusa diffidenza nei confronti dell’autonomia, del principio volontaristico, per cui si tende a lasciare al paziente spazio limitato a favore di una invocata utilità e vantaggiosità sociale. Di modo che il trattamento sanitario si autolegittima, ossia si impone di per se stesso, quando esista indicazione terapeutica e sia eseguito secondo le leges artis39.

Certo, i termini ricorrenti in questa materia (testamento, procura, curatore, fiduciario) evocano istituti di tradizione antica propri del diritto privato e legati in primo luogo alla disponibilità degli interessi patrimoniali del soggetto. È altresì certo che i sistemi giuridici continentali sono portati a tenere ferma una ben precisa differenziazione tra il settore degli interessi patrimoniali, dominati in pieno dalla disponibilità, e quello degli interessi personali, che attengono agli stati e alla capacità della persona e il cui carattere fondamentale è invece dato dall’indisponibilità. Ma è pur vero che con sempre maggior frequenza, come già ricordato, il legislatore sta facendo scelte notevoli che riconducono nella sfera dell’autonomia individuale la materia dei diritti attinenti alla persona.

Le obiezioni più diffuse contro le dichiarazioni anticipate coinvolgono prevalentemente: a) la validità da attribuire a scelte formulate in un momento anteriore a quello in cui devono attuarsi; b) la maggiore o minore capacità (o meglio presunta incapacità o incompetenza) della persona che sottoscrive il documento, tanto più che nessuna direttiva potrà essere così precisa da adattarsi alle esatte condizioni in cui il paziente può trovarsi; c) la circostanza che nell’ambito della struttura ospedaliera il diritto di non curarsi diventa secondario a fronte del meccanismo della garanzia di vita per cui il malato riconosce che le decisioni spettano al medico, rinunciando al proprio diritto di autodeterminazione, ne consegue anche che le dichiarazioni anticipate non possano vincolare l’autonomia professionale e scientifica del medico: potrà al massimo aiutarlo a operare scelte tra diverse possibilità terapeutiche.  Le obiezioni sub a) e b) negano sia il valore vincolante delle dichiarazioni contenenti una volontà ora per allora, sia il valore della volontà in termini di competenza espressa dal paziente in ogni momento precedente a quello della decisione.  Se queste critiche trovano attenzione, le conseguenze negative sul valore formale delle dichiarazioni sono evidenti.  La tesi dell’immediatezza implica che la volontà del paziente debba essere rispettata solo nel caso in cui questi, pienamente cosciente, sia in grado di ribadirla fino alla fine senza incertezze. Altrimenti, scatta la presunzione del contrario.  La presunzione cioè fondata sul meccanismo della garanzia di vita, in linea con quel paternalismo medico di dubbia conformità rispetto al più attuale indirizzo bioetico e giuridico che, nell’affermare il principio del rispetto dell’autonomia dell’uomo e della centralità della persona, tiene in debito conto anche la facoltà del soggetto di determinare e regolare la parte biologica della propria esistenza. Il principio dell’immediatezza di fatto mette in discussione l’esistenza di una continuità di identità tra chi sottoscrive la direttiva anticipata e chi poi sarà oggetto delle decisioni così manifestate.

 

Non voglio in questa sede entrare nel dibattito filosoficogiuridico sull’identità in generale e sull’identità personale, quest’ultima intesa come continuità mnemonica e mentale per poter parlare di una sola persona lungo un determinato percorso di vita40. Tuttavia mi sembra opportuno ricordare che chi sottoscrive le direttive si preoccupa che vengano tutelati interessi che, per usare la terminologia di Dworkin41, sono definibili critici, cioè raccolgono in sé valori e ideali fondanti la propria esistenza e pertanto irrinunciabili e insostituibili. Il loro mutamento interrompe l’unità narrativa che costituisce la vita di un individuo e determina la sua identificazione individuale.  Il testamento biologico trae allora la sua forza dal fatto che è un’affermazione degli interessi critici di una persona in particolari e futuri contesti di fine vita.

Ritengo allora pienamente compatibile col sistema che le dichiarazioni, magari supportate da un potere conferito al fiduciario, sopravvivano alla perdita di coscienza del soggetto.  Il documento che le contiene, redatto in apposite forme, ha prevalente ragione di essere proprio nel caso di incapacità, altrimenti può apparire perfino superfluo, andando soltanto a interessare il terreno già coperto dal divieto dell’accanimento e del consenso informato.

Se si presuppone poi che a fronte di una grave malattia e in prossimità della morte la volontà della persona cambi radicalmente, allora questo vale anche nel caso in cui la volontà fosse stata espressa poco tempo prima, anche poche ore prima. In vero il concetto di attualità esprime un requisito logico e non meramente cronologico-temporale. Se così non fosse potrebbe diventare complesso giustificare gran parte degli interventi chirurgici, in quanto in tali ipotesi il consenso viene espresso dal paziente prima e non durante tutto il corso dell’intervento. Anche in questi casi le manifestazioni di volontà espresse non risultano essere in concomitanza temporale con la lesione e l’intervento medico.

Voglio ancora ricordare come la legge sui trapianti di organi (legge n. 91/1999) abbia già da tempo aperto la strada a una vera e propria rivoluzione in tema di validità del living will, fondandosi sulla volontà espressa, anche mediante il silenzio, dal soggetto in vita. D’altra parte sembra preferibile far prevalere una volontà espressa dell’interessato, seppure priva del requisito della contestualità, rispetto a una volontà presunta, resa da familiari o da medici. Aggiungasi che non si dubita della validità ed efficacia di un testamento che con le sue formule accolga disposizioni non meramente patrimoniali (riconoscimento di un figlio, volontà relative al proprio cadavere, destinazione delle creazioni intellettuali) in previsione di una morte futura, neanche quando le circostanze possano suggerire che una decisione assunta a breve distanza dall’evento sarebbe stata del tutto differente.

Diverse etiche che pongono al centro il principio di autonomia possono poi offrire sufficienti spunti speculativi per contestare le obiezioni che provengono da una concezione troppo paternalistica di competenza necessaria per dare il consenso informato all’atto medico. Infatti, la competenza che rileva non è quella di saper individuare e conoscere le complesse connessioni tra malattia e terapie, ma piuttosto quella di avere ben presenti le conseguenze della malattia, lo scopo e la natura degli interventi che si intraprendono, le sofferenze e le menomazioni che seguiranno. In ciò l’aiuto per ottenere una competenza necessaria potrebbe provenire proprio dal medico una volta che venga abbandonata una comunicazione fatta di tecnicismi e di miracolose speranze.

Il morente, o chi lo rappresenta, deve essere messo in grado di comprendere se la qualità della vita che resta corrisponda o meno a un concetto di vita, già manifestato o da manifestare, che a quella materiale dell’organismo privilegia quella personalizzata dell’individuo.

In merito all’obiezione sub c), mi sembra di scorgere nell’ambito delle posizioni che la sorreggono un punto di compromesso tra tesi contrarie o favorevoli alla voluntas aegroti.

La mediazione sta nel proporre le direttive anticipate come eticamente accettabili e giuridicamente plausibili ma soltanto in quanto atti che abbiano come fine di eliminare l’abbandono e la solitudine. In pratica, pur riconoscendo ad esse valenza etica o eventualmente giuridica (nell’interesse del medico), si nega che possano essere strumenti di autodeterminazione, pretesa che determina tutti quei problemi insolubili che stanno dietro la ricerca di un corretto accertamento delle ultime volontà.

Devo tuttavia constatare che in tale prospettiva il diritto di autodeterminazione perde la sua posizione centrale. Infatti, proponendo di lasciare esclusivamente al medico la decisione se seguire o meno la volontà espressa nelle direttive, è vanificato il valore del documento stesso e delle ragioni che lo giustificano.  Coloro che muovono in questa direzione implicitamente fanno propria la tesi che sulle problematiche di fine vita è possibile soltanto affidarsi a quanto già presumibile dal consenso informato, dal divieto dell’accanimento terapeutico e dal codice deontologico dei medici.

Al contrario, la volontà espressa dal paziente deve risultare vincolante per il medico e va considerata valida fino a una esplicita e chiara espressione di ripensamento, o a una sua inattualità in relazione alla situazione clinica reale del paziente e agli eventuali sviluppi della tecnologia medica o della ricerca farmacologica. Proprio in ciò sta l’autonomia del medico e l’importanza della sua valutazione a fronte delle direttive.  Questo è, del resto, conforme all’art. 9 della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, che al titolo “Desideri precedentemente espressi” prevede per quanto riguarda un intervento medico su di un paziente incompetente il dover tenere conto delle scelte espresse in precedenza. Ciò sta a indicare che non è possibile, di fronte a dichiarazioni espresse in precedenza, fare prevalere sempre e comunque l’idea che i medici o altri si facciano carico, magari attraverso non chiari richiami alla bioetica relazionale, degli interessi e dei bisogni del diretto interessato. Anzi, è necessario che si motivi e si renda conto di ogni scostamento da quella volontà già a suo tempo espressa.

Un principio questo dell’art. 9 che combinato con l’art. 27 della Convenzione stessa assume un carattere vincolante per i Paesi che l’hanno sottoscritta, tra cui l’Italia, in considerazione del fatto che si prevede che nessuna delle sue disposizioni possa essere interpretata nel senso di limitare o interferire in qualche modo con la facoltà di ciascuna parte firmataria di garantire una tutela più intensa di quella prevista dalla presente Convenzione. Il che sta a significare che in sede legislativa gli Stati firmatari potranno ampliare diritti e libertà del paziente nel manifestare un proprio dissenso idoneo a sciogliere il vincolo di garanzia che lo lega al medico, ma non operare alcuna interpretazione riduttiva della Convenzione.  A queste indicazioni si è in parte richiamato il CNB nel suo documento Dichiarazioni anticipate di trattamento, dove nelle raccomandazioni bioetiche conclusive è detto “Il CNB ritiene altresì opportuno ... che la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate, escludendone espressamente il carattere vincolante ma imponendogli, sia che le attui sia che non le attui, di esplicitare formalmente e adeguatamente in cartella clinica le ragioni della sua decisione”.

Associare, infine, alle dichiarazioni anticipate un atto di nomina di un tutore o rappresentante non mi pare si distacchi dalla stessa Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, che all’art. 6, c. 3 prevede che quando un paziente “non ha la capacità di dare un consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di una autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge”. Ne consegue che chiunque assista un paziente incompetente: a) dovrà attivare la procedura per la nomina di un fiduciario, qualora quest’ultimo non sia stato già indicato dal soggetto malato; b) dovrà considerare il fiduciario referente d’obbligo per l’inizio, la prosecuzione e la cessazione dei trattamenti, affinché questi interventi siano giustificati. L’obiettivo evidente è quello che ci sia sempre un soggettocapace di interagire con il medico, in modo tale che l’impossibilità di esprimersi del paziente, l’incapacità di autodeterminarsi siano un male contenuto42.

 

Osservazioni conclusive

 

In merito a una legislazione eutanasica sono state avanzate preoccupazioni che concernono non tanto l’eticità di detta normativa, ma quella dei suoi possibili e probabili effetti socio-culturali: indebolimento della percezione sociale del valore della vita; possibilità di tragici abusi celati tra le maglie della permissività della legislazione; disimpegno pubblico nei confronti dell’assistenza ai morenti; concreta possibilità di scivolare verso forme di eutanasia non volontaria.  Anche se non deve essere sottovalutato il rischio che nei confronti del malato terminale si possa determinare l’aspettativa di una scelta di tipo eutanasico ritenuta socialmente o, peggio, economicamente preferibile, penso che ciò non dipenda necessariamente dalla liceità o meno dell’eutanasia, ma dall’attuale cultura della morte. Il modo cioè con cui una società tratta i morenti. Nella trasformazione sociale dalla famiglia estesa, patriarcale, a quella più ristretta, nucleare, anche il trattamento del morente si è profondamente modificato: da una vicenda intima, caratterizzata da dedizione e solidarietà, a una anonima, spesso rifiutata non solo per ragioni psicologiche, ma anche per ragioni pratiche e logistiche-organizzative.  Dalle proprie mura domestiche all’ospedalizzazione con i suoi costi sociali, con il disagio del medico ad affrontare il tema della morte, vissuto a volte come sconfitta e inadeguatezza.

 

Tutto ciò può anche spingere verso la tragica decisione del paziente a porre fine alla propria esistenza. È nostro l’obbligo di riflettere sull’elaborazione mentale della sofferenza, dell’emarginazione che genera la malattia e prevenirla laddove sia possibile. Un compito primario anche per il medico che deve andare al di là del suo impegno professionale-tecnico e collocarsi, come ha ricordato Veronesi, in una situazione di empatia con il paziente tale da trasformare l’obbligo di curare in quello di prendersi cura del malato, e maggiormente in quell’estremo spazio di esistenza tra la vita e la morte in cui sembra non poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non è più cosciente e la solitudine di chi deve ragionevolmente valutare e decidere43. In questa prospettiva ancor di più è possibile comprendere, da una parte, come la richiesta eutanasica attribuisca al medico e al personale sanitario un compito valutativo a volte reso assai complesso dall’impossibilità materiale di interazione con il paziente e, dall’altra, come l’eutanasia non debba in alcun modo essere una pratica che induca a facilitare logiche di abbandono terapeutico, neppure in modo indiretto. Infatti, le richieste e le direttive fornite dal paziente, a più forte ragione quando espresse (come inevitabilmente il più delle volte avviene) in forma generale e standardizzata, non dovrebbero mai essere applicate burocraticamente, bensì calate nella realtà specifica del singolo paziente e della sua effettiva situazione clinica, tenuto anche e soprattutto conto degli eventuali sviluppi della tecnologia medica o della ricerca farmacologica.  Ma è altresì irrinunciabile che ognuno abbia la possibilità di vedere rispettate le proprie scelte di fine vita, di modo che il medico, allontanandosi dal modello paternalistico e da considerazioni di tipo beneficialistico, traduca la sua azione, nei limiti sopra descritti, in un atto di rispetto per la dignità del paziente.

 

 

 

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Efficacia del testamento biologico e ruolo del medico

di Luigi Balestra

 

 

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Premessa

 

Il rapporto medico-paziente è significativamente mutato nel corso degli ultimi decenni, accrescendosi di una serie di contenuti che hanno decretato un riequilibrio tra i protagonisti.  Tradizionalmente, il paziente era concepito come mero soggetto destinatario – e, per tale motivo, in una posizione di vera e propria “soggezione” – di scelte di stretta competenza del sanitario; l’asimmetria di posizione esistente tra le parti del rapporto, dovuta all’assenza di qualsiasi cognizione dell’ars medica in capo al paziente e all’impatto emozionale che la malattia provoca in ogni individuo, si ripercuoteva sull’esplicazione dell’attività medica determinando una sorta di “arbitrio comportamentale” del sanitario cui il paziente si fosse rivolto.

 

L’idea che nel corso degli anni Settanta del secolo scorso inizia a farsi strada fa perno sull’autodeterminazione del paziente frutto, a sua volta, di un processo più ampio di auto-determinazione dell’individuo2 – il quale, ancorché sfornito di qualsiasi competenza di natura medica, non può non essere chiamato a esprimere le proprie opinioni e/o preferenze, in ordine alla condotta del sanitario. Così come in un contratto di appalto – si perdoni l’improprietà del paragone, per lo meno sotto il profilo della natura e della rilevanza dell’interesse da realizzare – il committente, quantunque sprovvisto di cognizioni tecniche, propone, manifesta idee ed esprime desideri3, allo stesso modo il paziente interagisce con il medico, diviene protagonista delle scelte che lo concernono. E non potrebbe essere diversamente poiché l’interesse da realizzare mediante l’esecuzione dell’attività richiesta, in quello come in questo caso,

pertiene al destinatario della prestazione, il quale nell’attività medica pone in gioco i “beni” più preziosi di cui è titolare: la salute e la vita4. All’atteggiamento paternalistico che per lungo tempo ha connotato l’esercizio della professione medica5, si sostituisce una visione del rapporto medico-paziente di tipo collaborativo in cui il medico è chiamato a colmare il gap conoscitivo del paziente e, dunque, a illustrare, informare, prospettare, affinché quest’ultimo – vale a dire il titolare dell’interesse che la prestazione medica è volta a salvaguardare – sia in grado di esprimere consapevolmente il proprio consenso6. All’anzidetto mutamento ha certamente contribuito il ripensamento delle basi epistemologiche della medicina che, fondata da sempre sulla relazione necessaria tra eziologia,

malattia e cura, ha progressivamente acquisito coscienza della possibile molteplicità delle cause delle malattie e, per conseguenza,

delle difficoltà che in molti casi si prospettano di selezionare un preciso trattamento terapeutico7. L’acquisita consapevolezza delle incertezze che possono caratterizzare l’esercizio della professione medica ne ha d’un tratto posto in luce un’intrinseca debolezza, che ha comportato il necessario coinvolgimento del paziente nell’assunzione delle scelte.  A ciò aggiungasi la profonda accelerazione tecnologia verificatasi sul finire del passato millennio che ha reso sempre più mobili le frontiere estreme della vita e, per conseguenza, accresciuto le possibilità di scelta offerte all’individuo in relazione alla molteplicità di interessi che la persona è in grado di esprimere8. Sulla base di tali mutamenti, per certi versi epocali, ha trovato adeguato riconoscimento il principio dell’autonomia del paziente9, sia pure accompagnato dalla consapevolezza ch’esso non può coincidere con un’autodeterminazione in senso pieno e incontrollato a cagione della presenza all’interno del nostro ordinamento di limiti invalicabili. In effetti, ridisegnato

su basi nuove e fortemente incentrate sul concetto di autonomia, il rapporto medico-malato ha posto in luce con evidenza il problema dei contenuti ed, eventualmente, dei limiti che l’autodeterminazione del paziente incontra10; si tratta di un nodo cruciale e, al tempo stesso, di difficile risoluzione se solo si pensa che su un tema di tal genere – che evoca la delicata questione della disponibilità/indisponibilità della salute e, in ultima analisi, della vita – cultura laica e cultura cattolica si collocano su piani diametralmente opposti11. Del resto, nel nostro ordinamento non sembrano rinvenibili indici che depongano nel senso di un riconoscimento integrale del principio di autodeterminazione12, se solo si considera che l’art. 5 c.c.      pone un divieto piuttosto ampio agli atti di disposizione del proprio corpo13 e che l’art. 32 Cost. protegge la salute, non solo come diritto fondamentale dell’individuo, ma anche come interesse della collettività, in tal modo contemplando una dimensione sia individuale sia collettiva della salute stessa14.

 

 

Il testamento biologico quale logica conseguenza dell’affermazione del principio di autodeterminazione.

 

Il processo appena descritto, ridisegnando i ruoli che i protagonisti della relazione sono chiamati a ricoprire, ha di necessità sollevato il problema del paziente che versi in uno stato di incapacità e sia dunque impossibilitato a partecipare fattivamente alle scelte che lo riguardano. In casi siffatti, proprio per ovviare alla situazione di profonda incertezza che viene a determinarsi per effetto dell’incapacità in cui versa il paziente, si è ormai da alcuni lustri, soprattutto nella cultura nord americana,

venuta affacciando l’idea che ciascuno in fasi diverse della propria vita – e, quindi, indifferentemente quando gode di piena salute oppure quando è già colpito da una patologia –possa predeterminare “ora per allora” le prestazioni e gli interventi medici cui sottoporsi; ove “ora” sta a indicare un preciso contesto temporale in cui un soggetto perfettamente compos sui assume una o più determinazioni destinate a essere operative “allora”, nel momento cioè in cui il medesimo soggetto, perduta la capacità di esprimere la propria volontà, venga a trovarsi in situazioni che richiedano l’effettuazione di scelte in ordine alle cure, ai trattamenti e agli interventi da realizzare.  Il cosiddetto testamento biologico è volto pertanto a colmare, sia pure, come si avrà modo di osservare, in modo parziale, lo iato che la sopravvenuta incapacità dell’individuo determina nel rapporto con il sanitario e rappresenta, sotto questo profilo, l’approdo logico del processo di progressiva valorizzazione del consenso informato. È ben vero che attualmente nel nostro Paese non vi è una particolare sensibilità sociale nei confronti degli interessi che attraverso le direttive anticipate si intendono assecondare; pur tuttavia, da ciò non può ricavarsi la legittimità dell’assunzione di un atteggiamento di indifferenza nei confronti del delicato tema15, posto che il compito del legislatore non si esaurisce nella mera ricezione di istanze socialmente condivise, ma ben può esplicarsi, allorquando a essere in gioco siano interessi reputati meritevoli di particolare tutela, in un’ottica promozionale.

D’altra parte, sembra fuorviante sostenere che nel dibattito sul testamento biologico la vera posta in gioco sia la legalizzazione

dell’eutanasia16. L’eutanasia è certamente e fortemente presente nel dibattito, ma la vera posta in gioco è più ampia e si identifica col tentativo di rivestire di nuovi contenuti la relazione medico-paziente attraverso un “processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente”17. In una tale prospettiva, l’eutanasia rimane ai margini della discussione sulla meritevolezza di tutela del testamento biologico ex se e si colloca, più opportunamente, nel contesto dei limiti cui la “volontà di testare” deve soggiacere al cospetto di un ordinamento che concepisce la vita umana come bene indisponibile. Della necessità di dar vita a significativi cambiamenti nel modo di concepire il rapporto tra il medico e il paziente, assicurando, in particolar modo, il rispetto della volontà che quest’ultimo abbia espresso in ordine alle cure cui intende sottoporsi,

costituiscono evidente testimonianza alcuni documenti la cui approvazione è avvenuta sul finire degli anni Novanta. Si intende

far riferimento alla Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina firmata a Oviedo il 4 aprile 1997 e ratificata in Italia

con legge 28 marzo 2001, n. 145, nonché al Codice di deontologia medica approvato nel 1998. Per quel che concerne in special

modo le direttive anticipate, l’art. 9 della Convenzione di Oviedo statuisce che i desideri precedentemente manifestati con riguardo a un intervento medico da un paziente che, al momento dell’intervento non sia in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione; l’art. 34 del Codice di deontologia medica prevede che “il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”. In una prospettiva di legislazione interna, che parrebbe prossima, la Commissione Igiene e Sanità del Senato ha approvato nel mese di luglio del 2005 un disegno di legge in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento con l’intento di dare concreta attuazione al principio di autodeterminazione nel campo delle cure mediche18. In via generale, alla luce dei significativi interventi di cui si è dato conto, può dunque affermarsi che la posizione di garanzia riconosciuta al medico in ordine alla salute del malato, pur comportando la doverosità dell’intervento, non può porsi in conflitto con l’autodeterminazione del paziente il quale, nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento a salvaguardia di valori indisponibili, abbia manifestato una determinata volontà, ancorché in epoca precedente rispetto al momento in cui si impone la scelta di un determinato trattamento19.

 

 

Autodeterminazione del paziente e scelte del medico

 

Riconosciuta la liceità del testamento biologico astrattamente considerato20, in quanto diretto a consentire la libera esplicazione della personalità dell’individuo in relazione a interessi di fondamentale rilevanza21, diventa cruciale stabilire: 1) in quale direzione possa indirizzarsi la volontà determinativa in vista della futura incapacità e, conseguentemente, se e quali siano i limiti cui la predetta volontà soggiace22; 2) quale sia il ruolo del medico al cospetto delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Con riguardo alla questione di cui al punto 2)23, si pone invero l’esigenza di contemperare due opposti principi che, se condotti alle estreme conseguenze, rischiano di rivelarsi inconciliabili; da un lato, l’autodeterminazione del paziente, il quale può oggigiorno essere a buona ragione considerato effettivo partecipe nella relazione che intesse con il medico e, dall’altro, l’autonomia professionale del medico24. La tendenza attualmente in atto verso un riconoscimento sempre più incisivo della libertà di scelta del paziente, qualora dovesse concretizzarsi nella vincolatività delle scelte operate con il testamento biologico, rischierebbe di compromettere gravemente la professionalità del medico, il quale vedrebbe il proprio operato rigidamente predeterminato da scelte magari effettuate alcuni anni prima in condizioni e al cospetto di situazioni profondamente diverse; sarebbe del tutto assente quel percorso, contraddistinto da un dialogo costante e aggiornato che solo può consentire l’assunzione di scelte consapevoli, che ormai si reputa debba connotare indefettibilmente il rapporto medico-paziente. Proprio la predeterminazione della volontà, intesa come carenza di attualità rispetto alla situazione patologica in cui si impone la scelta25, rischia infatti di compromettere l’agire del sanitario il quale, non solo si troverebbe nell’impossibilità di dialogare col paziente in relazione alla situazione così come concretamente manifestatasi, ma sarebbe addirittura tenuto ad anteporre a ogni valutazione di tipo professionale la volontà manifestata dal paziente in un momento precedente, come tale priva di aderenza alla situazione concreta e, soprattutto, ai suoi molteplici risvolti. La relazione medico-paziente, di per sé già caratterizzata dalla ricerca di un difficile equilibrio, si complica inevitabilmente a fronte delle direttive anticipate di trattamento a causa della sfasatura tra situazione semplicemente paventata in occasione dell’assunzione della scelta e situazione così come concretamente manifestatasi26.

 

L’anzidetta sfasatura rappresenta il vero nodo dilemmatico del rapporto medico-paziente in relazione al testamento biologico: nodo che una significativa letteratura ha sintetizzato, forse un po’ troppo genericamente, nell’alternativa efficacia vincolante o orientativa delle direttive anticipate. E in effetti i documenti cui si è fatto in precedenza riferimento rivelano emblematicamente lo sforzo di coniugare il rispetto dell’autonomia decisionale del paziente con la professionalità del medico mediante l’impiego di formule per certi versi elastiche: espressioni del tipo “i desideri del paziente saranno tenuti in considerazione” (art. 9 Convenzione di Oviedo)27 o “il medico non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal paziente” (art. 34 Codice di deontologia medica) introducono una sorta di vincolatività attenuata ovvero, specularmente e a seconda della prospettiva prescelta, di discrezionalità limitata. Le formule adoperate (“tenere in considerazione”, “tenere conto”), esplicitamente volte a non irrigidire eccessivamente il ruolo del sanitario, appaiono tuttavia inadeguate nella prospettiva di preservare effettivamente la volontà del “testatore”, poiché sembrano collocare la predetta volontà sul medesimo piano di tutta un’altra serie di elementi la cui individuazione e valutazione, essendo rimessa alla discrezionalità del medico, potrebbe condurre a soppiantare le scelte precedentemente effettuate dal paziente. In altri termini, con lo stabilire semplicemente che occorre tenere conto dei desideri del paziente, si indica al medico soltanto uno dei possibili e molteplici elementi da valutare, come tale privo di specifica efficacia condizionante.  Alla luce di tali ultime osservazioni un’interpretazione, come quella proposta dal Comitato Nazionale per la Bioetica, secondo cui qualora il medico maturasse il solido convincimento che “i desideri del malato fossero non solo legittimi, ma ancora attuali, onorarli da parte sua diventerebbe non il compimento dell’alleanza che egli ha stipulato col paziente, ma un suo preciso dovere deontologico”28, si discosta apertamente dal significato proprio delle espressioni utilizzate poiché vincola sostanzialmente il medico al rispetto delle direttive anticipate salvo l’accertamento che, alla luce dei progressi della scienza medica e/o della ricerca farmacologia, le anzidette direttive siano carenti di attualità. Si attribuisce, in buona sostanza, efficacia piena al testamento biologico salva la verifica, secondo principi ben noti alla tradizione civilistica, che le circostanze in cui è maturata la volontà del malato non siano successivamente mutate al punto da renderla praticamente ineffettiva.

Pur tuttavia, il tentativo di ricercare un equilibrio (sicuramente delicato) in modo da escludere tanto il carattere rigidamente vincolante delle scelte anticipate – ciò che sostanzialmente priverebbe il medico di qualsiasi potere decisionale –, quanto quello orientativo – che, all’opposto, finirebbe con l’attribuire al medico piena libertà decisionale svuotando di efficacia le dichiarazioni del paziente –, non sembra riuscito. Invero la necessità di discostarsi dalle scelte del malato ogniqualvolta se ne ravvisi la carenza di attualità, lungi dall’introdurre un qualsiasi profilo di autonomia nell’attività del medico, risponde unicamente all’esigenza di tutelare la stessa volontà del malato, il quale, qualora fosse stato in condizione di farlo, avrebbe espresso un diverso volere e, comunque, modificato le scelte precedenti (è evidente che si tratta di una valutazione da esprimere in via meramente ipotetica e, pertanto, fondata su criteri essenzialmente oggettivi, relativamente a quella che sarebbe la volontà del malato qualora avesse la capacità di esprimere il proprio consenso).

Occorre a mio avviso porsi in una prospettiva diversa da quella sinora adottata – vincolatività o meno delle scelte anticipate del malato a seconda dell’attualità delle medesime nel momento in cui deve attuarsi l’intervento sanitario – per stabilire se e in quale misura il medico sia tenuto al rispetto del testamento biologico. A tal fine, occorre a mio avviso soffermare l’attenzione su due profili ben evidenziati da Cendon. In primo luogo, v’è da considerare la sproporzione, in termini di precisione e previsione, tra ciò che può essere determinato nel testamento biologico e la molteplicità dei problemi che la situazione concreta può prospettare29. A prescindere dalla sfasatura, in precedenza evidenziata, che può venirsi a determinare per la diversità del contesto temporale-ambientale in cui la volontà è manifestata rispetto al momento cui tale volontà deve trovare attuazione, si pone un problema di contenuti che, per quanto astrattamente minuziosi, si riveleranno nella gran parte dei casi generici, imprecisi, non sempre pertinenti, rispetto alle peculiarità della situazione da affrontare.

In secondo luogo, anche a voler prendere in considerazioni situazioni patologiche di grande invasività, si constata che l’incapacità assoluta di esprimere una preferenza e/o un’opinione, è limitata ai casi estremi, quasi marginali ancorché di grande impatto emotivo30. Solo nelle situazioni più gravi, pertanto, si è in presenza di un’incapacità assoluta, di modo che diviene prioritario operare una graduazione dei molteplici stadi in cui l’individuo, senza esserne totalmente privo, lamenti un difetto più o meno significativo della capacità. In tali casi non si può far riferimento esclusivamente al contenuto del testamento biologico, occorrendo continuare a dialogare con il malato – dando prova di una sensibilità e di una capacità di ascolto in verità non sempre riscontrabili nell’esercizio della professione medica – affinché le determinazioni in esso contenute, attraverso conferme, aggiornamenti, modifiche e integrazioni, possano riacquistare quel carattere di attualità eventualmente perduto col passare del tempo e, soprattutto, acquistare quell’aderenza alla situazione concreta di cui le direttive anticipate sono – per loro stessa natura – prive. Il testamento biologico nella prospettiva dianzi indicata diviene per il medico il punto di partenza per la ricostruzione della volontà del malato così come concretamente manifestatasi – sia pure tra innumerevoli difficoltà a causa del progredire della patologia

nel corso del tempo.

Al di là di ogni considerazione circa i limiti di liceità cui va incontro la volontà del malato – la cui valutazione, come già sottolineato, esula dall’indagine del presente contributo – a me pare che il testamento biologico, cui certamente va riconosciuto il merito di accrescere di significati il ruolo del malato nella difficile relazione con il sanitario e che, per tali motivi, va certamente incentivato, non possa tuttavia assumere carattere vincolante per il medico col solo limite della verifica della sussistenza del requisito dell’attualità. Il testamento biologico, lungi dall’imporre un rigido vincolo, deve piuttosto servire a responsabilizzare ulteriormente il medico, sul quale incombe l’obbligo di valorizzare la volontà del paziente nel contesto dei molteplici elementi caratterizzanti la situazione concreta e, nel caso decida di discostarsene, di darne adeguata e plausibile motivazione alla luce di criteri oggettivamente riscontrabili e apprezzabili. La volontà del malato diviene così un elemento che concorre alla formazione delle scelte del medico; scelte che, sebbene condizionate, non sono tuttavia rigidamente vincolate dalle direttive anticipate31. In conclusione, nell’affrontare la delicata questione relativa all’efficacia del testamento biologico sembra corretto superare la rigida alternativa efficacia vincolante/orientativa, per porre l’attenzione sul ruolo del medico: costui è chiamato a effettuare una valutazione ulteriore di tutti gli elementi scaturenti dalla situazione patologica concreta in cui versa il malato – con adeguata considerazione dei messaggi, dei segnali, che il malato continua ancora a trasmettere32 – in relazione alle direttive manifestate dal medesimo in un’epoca precedente, per poi orientare le scelte alla luce di tale complessiva ponderazione. In tale ottica, il principio di autodeterminazione del paziente, che ormai rappresenta un punto di riferimento ineliminabile attraverso la cui lente guardare alla relazione medico-paziente, subisce un contemperamento, giustificato dal fatto che le direttive del malato – in quanto elaborate antecedentemente – sono prive, per lo meno in modo integrale, di aderenza alla situazione così come concretamente profilatasi agli occhi del sanitario.  Invero, non può non sottolinearsi come il rapporto medico-paziente si connoti in termini parzialmente differenti a seconda che il sanitario abbia a che fare con un soggetto pienamente cosciente ovvero con un soggetto privo totalmente (o quasi totalmente) della capacità di intendere e di volere ma che tuttavia abbia precedentemente manifestato una determinata volontà in ordine alla scelte sanitarie da intraprendere.  L’impossibilità di interagire col paziente nel momento in cui si tratta di effettuare la scelta si ripercuote necessariamente sul concreto atteggiarsi del rapporto e, per conseguenza, sul delicato ruolo del medico.

 

 

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Il testamento biologico: perché?

di Rossana Cecchi

 

Il Comitato Nazionale di Bioetica nella seduta del 18 dicembre 2003 ha concluso il documento “Dichiarazioni anticipate di trattamento” dando, in questo modo, legittimità a un argomento da sempre temuto in Italia, tanto da renderne difficile anche la sola discussione: il consenso anticipato all’atto medico dell’avente diritto.

Il documento approvato dal CNB non è, ovviamente, legge, però, come sempre è avvenuto sinora per molte raccomandazioni del Comitato, certamente costituirà il punto di partenza di un lungo iter legislativo che porterà a una legge dello Stato su questo difficile argomento. E questo sembra già un fatto importante.

Successivamente, il 2 febbraio 2005 il Cardinale Francesco M. Pompedda, già Prefetto della Signatura apostolica e già Decano della Sacra Rota romana, ha affermato in una trasmissione televisiva che il testamento in vita è “positivo sotto l’aspetto giuridico-logico ed è anche apprezzabile nel contenuto etico-religioso” e “coincide pienamente con il catechismo della Chiesa cattolica e confacente con la dottrina della Chiesa”, affermando che “ogni individuo deve poter autodeterminarsi per quanto riguarda il trattamento sanitario da subire”1.

E anche questo appare un fatto molto importante.  Sempre più spesso i mass media si confrontano con temi riguardanti richieste estreme da parte di pazienti gravemente malati o dei loro congiunti, spingendo in tal modo anche i cittadini a discutere di un argomento forse fino a poco tempo prima lontano dalla mente di molti. È auspicabile, pertanto, che, come è già avvenuto in passato per altri temi di carattere medico, anche questa volta la discussione dilaghi coinvolgendo non solo ambienti, per loro costituzione già inclini a occuparsi di questi temi, come la medicina, la filosofia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia, ma anche aree della società distanti, impegnate in ambiti totalmente differenti.

Questo scritto si pone come obiettivo quello di favorire una sistematizzazione del problema del consenso ai trattamenti medici, delineandone l’iter evolutivo nei decenni, che si è spinto sino alla previsione di una dichiarazione di volontà anticipata rispetto a un trattamento che si renda necessario in un tempo successivo, e fornendo gli elementi utili a un dibattito costruttivo sull’argomento.

 

Basi giuridiche del consenso all’atto medico

Per poter affrontare l’argomento del consenso all’atto medico in modo organico, appare indispensabile chiarire – senza pretese di essere esaurienti – perché, affinché un atto medico sia legale, esso debba essere preceduto dal consenso del paziente.

La risposta risiede in primo luogo nell’art. 32 della Costituzione italiana2 che afferma la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e stabilisce che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Da ciò deriva la necessità che vi sia una espressione di libertà dell’individuo nell’accettare un trattamento di natura sanitaria.

Parimenti, l’art. 13 della Costituzione afferma che “la libertà personale è inviolabile”, rafforzando, quindi, il dato di indipendenza dell’individuo nelle scelte che lo riguardano personalmente.  D’altro canto, l’art. 5 del codice civile stabilisce che “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica”, di conseguenza molti trattamenti medici potrebbero essere considerati illegali in quanto procurano una lesione dell’integrità fisica del soggetto. Questo problema è stato giuridicamente risolto proprio grazie al consenso all’atto medico laddove l’autorizzazione del paziente a una diminuzione della propria integrità fisica viene data al fine di raggiungere un bene superiore, quello della salute. Basti pensare agli atti chirurgici di menomazione di parti del corpo che portano all’asportazione di organi o parti di essi colpiti da gravi patologie. La menomazione in questi casi è strettamente legata al conseguimento della cura.

 

Evoluzione deontologica del consenso all’atto medico

Lo studio dei codici deontologici medici succedutisi negli anni e l’analisi di come i vari argomenti vengono in essi trattati, permette di conoscere l’evoluzione che i vari temi di interesse medico hanno subito negli ultimi decenni.

Il codice deontologico, infatti, è la posizione ufficiale assunta dall’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri su come debba orientarsi il comportamento del medico nei vari ambiti che lo coinvolgono. In esso vengono affrontati i temi a valenza etica più importanti e per ciascuno vengono indicatele norme di buon comportamento del medico. Diviene, perciò, di grande interesse studiare come nel corso degli anni il comportamento indicato muti, espressione di un’evoluzione culturale, scientifica e giuridica3.

Sin dal codice deontologico del 1954 – definito Codice Frugoni e mai ufficializzato4 – il tema del consenso era stato affrontato affermando “il consenso può essere validamente prestato solo da chi conosce esattamente l’oggetto e le conseguenze del consenso stesso, la qual cosa può avvenire solo eccezionalmente nei rapporti tra medico e malato”5. Viene così stabilito che il consenso può essere richiesto solo dal medico.  Più sottile, per le conseguenze che ne derivano e che vedremo esplicitarsi in ambito giurisprudenziale, è l’affermazione che segue: “All’atto di stipulazione del contratto di prestazione d’opera tra medico e malato si ha una manifestazione di volontà che implicitamente comprende il consenso all’impiego di quei mezzi che il medico ritiene opportuni”. Si afferma, quindi, che l’atto stesso di rivolgersi a un medico sottintende da parte del paziente la prestazione di un consenso a qualsiasi atto medico venga deciso.

Viene ritenuto, invece, necessario – quindi da prestarsi in modo esplicito – il consenso del malato “soltanto in quei casi nei quali lo scopo desiderato può essere conseguito con identità di risultato (che può essere certo o incerto) adottando trattamenti diversi, ovvero quando il risultato prevedibile non giustifichi di per sé il rischio di un dato intervento, che quand’anche utile, non può essere considerato necessario”.

Il consenso esplicito, pertanto, si rende obbligatorio nei casi in cui vi siano diversi trattamenti che raggiungono lo stesso scopo e, quindi, spetta al paziente scegliere quale – e quando vi siano rischi per il paziente non giustificati dalla reale necessità dell’intervento prescelto. Anche se apparentemente coerenti con gli orientamenti attuali, queste affermazioni hanno portato a pronunce giurisprudenziali piuttosto criticabili (v. oltre).

Il tema del consenso all’atto medico, nel codice deontologico del 1978, viene affrontato agli artt. 30 e 39. L’art. 39 stabilisce che il consenso del paziente è obbligatorio quando nel trattamento proposto è insito un rischio e il consenso espresso dev’essere valido. Il codice non stabilisce cosa debba intendersi per valido, e lo si deve dedurre dalle sentenze espresse. Nei casi in cui il consenso rifiutato sia indispensabile, il medico è tenuto, inoltre, a farsi rilasciare una dichiarazione liberatoria dall’interessato o dai suoi familiari. È evidente come la libertà di scelta dei trattamenti da parte del paziente sino a quel momento non fosse stata ancora recepita dalla cultura medica, tanto da indurre a ritenere obbligatoria una dichiarazione liberatoria onde evitare qualsiasi risvolto penale.

Il problema della malattia a prognosi infausta viene affrontato nell’art. 30, laddove si precisa che la prognosi può essere nascosta al paziente, ma dev’essere riferita alla famiglia. Ciò, oggi, appare anacronistico, e dimostra l’approccio paternalistico dell’epoca, per cui si tendeva a proteggere il paziente dalla verità, tanto da giungere a nasconderla, dando ai parenti il diritto di vicariarlo nella decisione.

In ogni modo, veniva anche sancito che la volontà del paziente deve ispirare il comportamento del medico, salvaguardando, laddove esistesse una espressione di volontà del malato, un minimo di influenza da parte di quest’ultimo sulle scelte che lo riguardavano. Nel 1978, quindi, si considerava già l’importanza del consenso e della sua validità, ma essenzialmente in presenza di pericolo nel trattamento, mentre la volontà del paziente era considerata semplicemente come ispiratrice del comportamento del medico. I familiari, invece, svolgevano un ruolo centrale, che giungeva sino a sostituirsi al rapporto medicopaziente.  Molti anni trascorrono prima che venga pubblicato, nel 1989, un nuovo codice deontologico. Nel corso di questi anni il dibattito su alcuni temi medici si fa incalzante, tanto da portare a un cambiamento culturale incisivo e a una consapevolezza da parte della pubblica opinione talmente forte che gli effetti sono ben palesi nella stesura del codice stesso.  Già l’art. 40 del codice del 1989, infatti, opera una sorta di rivoluzione, per cui la richiesta del consenso diventa un dovere vero e proprio per il medico, da attuarsi sempre, sia per le attività terapeutiche che diagnostiche, e, quindi non più solo quando vi siano rischi, casi, questi ultimi, in cui il consenso dev’essere dato in modo esplicito, cioè per iscritto.  Finalmente si ha anche una miglior precisazione delle caratteristiche che deve avere il consenso stesso, e per la prima volta si fa riferimento all’informazione da dare al paziente.  L’art. 39, infatti, è molto chiaro nell’indicare al medico che è suo dovere dare un’informazione, specificando anche su cosa egli debba informare: la diagnosi, la prognosi, le prospettive terapeutiche e le loro conseguenze. Viene addirittura indicato il modo in cui l’informazione dev’essere data (tenendo conto del livello di cultura e delle capacità di discernimento del paziente) e il medico deve far capire al paziente che le conoscenze mediche hanno un limite e deve rispettare i diritti del paziente.  Tutto ciò al fine di promuovere la miglior adesione del paziente alle proposte terapeutiche. Il rapporto medico-paziente diventa così un rapporto alla pari, dove il paziente non è più colui che si affida – fidandosi completamente – alle cure del medico (rapporto paternalistico), ma al contrario chiede e pretende dal medico di ottenere tutte le informazioni necessarie affinché lui, e solo lui, possa decidere, con tutti gli elementi a disposizione, a quale trattamento aderire. Tale presa di posizione verrà recepita anche dalla giurisprudenza con la sentenza n. 13 della Corte di Assise di Firenze del 13.10.1990.

È chiaro che un rapporto così impostato responsabilizza anche maggiormente lo stesso paziente nel momento in cui accetta la terapia. Ed è proprio questo il cammino che ha portato al cosiddetto informed consent, consenso informato, che se da un lato impegna maggiormente il medico nel rapportarsi al paziente, dall’altro pone il paziente su un piano di autorità verso se stesso di cui, di conseguenza, deve rispondere in prima persona. La possibilità di nascondere una prognosi infausta continua a essere ammessa, ma viene circoscritta “segnatamente in rapporto con la reattività del paziente”. Si considera anche la possibilità di attenuare la verità, ma rimane l’obbligo, in questi casi, di riferirla ai parenti. Allo stesso modo viene ribadita l’asserzione per cui la volontà del paziente deve servire da ispirazione al comportamento del medico. Quest’ultima affermazione trova maggior enfasi nell’art.  40, laddove si afferma che in presenza di un esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico è tenuto alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e curativo; ciò costituisce una prima importante presa di posizione verso la libertà decisionale del paziente che ispirerà i futuri testamenti biologici e trova il proprio fondamento giuridico nell’art. 32 della Costituzione. Viene in questo modo sanata l’incongruenza per cui l’art. 39 del codice del 1978 prevedeva la dichiarazione liberatoria da parte del paziente o dei familiari in caso di rifiuto di cure.

Si affronta in modo diretto anche il problema dei trattamenti ad alto rischio che devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità, preceduti da una congrua informazione e devono essere accompagnati da un’opportuna documentazione del consenso. Di grande importanza è l’art. 44 che afferma che “ove si accompagni difetto di coscienza” – e questo è il primo passo verso le situazioni per le quali oggi si discute di dichiarazioni anticipate di trattamento – “il medico dovrà agire secondo scienza e coscienza proseguendo nella terapia finché ragionevolmente utile”. Si lascia, quindi, al medico il pesante fardello di decidere cosa sia ragionevolmente utile per il paziente. È ovvio che questa posizione ha comportato una maggior propensione verso forme di accanimento terapeutico, avvertito dal medico, lasciato solo a decidere, come la decisione meno impegnativa per la propria coscienza.

Ciononostante, l’art. 44 va considerato un articolo “rivoluzionario” in quanto per la prima volta viene presa in considerazione, quale parametro di comportamento nel caso di malati terminali, la qualità della vita. Allo stesso tempo si comincia a introdurre e ad applicare il concetto di accanimento terapeutico (la cui definizione si trova nell’art. 20)6 nel momento in cui si afferma che, qualora questa sia la volontà del paziente, il medico può limitare la sua opera alla terapia del dolore con trattamenti appropriati e conservando, appunto, la qualità di una vita che si spegne. L’art. 44 prosegue affrontando un tema che non interessa in questa sede, quello della morte cerebrale – all’epoca ancora non risolto del tutto a livello giurisprudenziale –, dando, però, delle indicazioni preziose che verranno accolte dal Comitato Nazionale di Bioetica nel 1991 e, successivamente, dal legislatore stesso nel 1993 con la legge 578 recante le Norme per l’accertamento e la certificazione di morte. Il codice del 1995, nell’art. 29, affina le indicazioni contenute nell’art. 39/1989 su come debbano essere fornite le informazioni per un valido consenso precisando che il medico, oltre che del livello di cultura del paziente, deve tener conto anche della sua emotività, e che l’informazione data, oltre che la più serena, deve essere anche la più idonea, con ciò evitando che la necessità di dover dare un’informazione serena possa andare a discapito dell’effettiva adesione dell’informazione alla realtà della patologia. Viene precisato che l’informazione deve riguardare non solo le conseguenze “verosimili” dell’atto medico da intraprendere, che lascia spazio a una serie di complicanze non prevedibili, ma sempre possibili, in medicina, ma ciò che potrebbe conseguire alla mancata adesione alla terapia.  Così facendo, il paziente viene responsabilizzato in modo più concreto sulle proprie decisioni.

Le ulteriori indicazioni contenute nell’art. 29/1995, laddove ammettono che le informazioni possano “essere circoscritte a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire e accettare, evitando superflue precisazioni di dati inerenti agli aspetti scientifici”, recepiscono pienamente le raccomandazioni promulgate dal CNB nel documento Informazione e consenso all’atto medico del 1992, che consiglia di fornire le informazioni secondo il modello cosiddetto standard medio, che “impone di dire quanto una persona ragionevole, pensata come media all’interno di una comunità, vorrebbe sapere e potrebbe comprendere della procedura medica che la riguarderà (con vantaggio del livello divulgativo dell’esposizione, ma con le ambiguità legate alle nozioni di ragionevole e medio)”, evitando lo standard professionale che implica precisazioni di dati inerenti agli aspetti scientifici, ma, e questo è molto importante, evitando anche lo standard soggettivo, in cui si rischia la deformazione paternalistica informando solo su cosa il paziente “qui e ora vuole e può comprendere”.

La rinuncia allo standard soggettivo impone anche un decisivo cambiamento nell’approccio al paziente con patologie a prognosi infausta. Al contrario di quanto veniva affermato nell’art.  39/1989 che ammetteva l’informazione solo ai congiunti, qualora ciò fosse stato ritenuto più opportuno, nell’art. 30/1995 viene, invece, imposto al medico di informare il paziente in prima persona “con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai elementi di speranza” e, l’informazione ai congiunti viene ammessa solo con il consenso del paziente stesso (art. 31/1995). Ciò in accordo con il CNB che, nel documento del 1992, suggeriva di parlare al malato grave di “malattia importante, di serietà della situazione, di necessità di particolari, delicate indagini, di terapie che possono comportare dei rischi, di lasciare sempre margini di speranza”. È evidente l’evoluzione culturale in ambito di capacità decisionale (competence) del singolo sulla propria libertà alla salute.

Una nuova piccola rivoluzione viene apportata con l’art.  31/1995 laddove afferma che il consenso scritto serve solo come integrazione del consenso informato, previsto dall’art. 29, e non lo sostituisce, svilendo così il ruolo che il consenso scritto ha sempre avuto, a favore di un’informazione che deve essere data sempre e comunque per qualsiasi atto medico, con la stessa chiarezza circa le motivazioni, i rischi, le terapie alternative possibili, ecc., con la sola differenza che, quando “il procedimento diagnostico o terapeutico possa comportare un grave rischio per l’incolumità del paziente”, tutti i chiarimenti, a integrazione, dovranno essere posti per iscritto e controfirmati dal paziente. In tal modo si eviteranno, ad esempio, le situazioni per cui un giudice, chiamato a valutare l’operato del medico, non prende in considerazione il consenso scritto per il fatto che esso sia “standardizzato”, cioè privo di elementi che lo rendono specifico di quel paziente.

Anche nel codice del 1995, con l’art. 31, viene affermato con forza il dovere del medico di desistere da qualsiasi atto medico in caso di esplicito rifiuto da parte del paziente. L’aver posto questa indicazione nel contesto di un articolo dedicato alle procedure diagnostico-terapeutiche particolarmente rischiose e/o invasive, contribuisce a dare maggior enfasi alla libertà decisionale del paziente, il quale ha pieno diritto anche da un punto di vista etico/deontologico di rifiutare qualsiasi trattamento considerato eccessivamente invasivo per se stesso. È evidente come il cammino verso le direttive anticipate sia ormai inevitabile, anche se persiste, con l’art. 34, il dovere del medico di prestare l’assistenza e le cure indispensabili, qualora sussistano condizioni di necessità e urgenza e in casi implicanti pericolo per la vita di un paziente che non possa esprimere al momento una volontà contraria. Con ciò viene riconfermata la discrezionalità del medico nelle decisioni da prendere in caso di impossibilità di espressione diretta della volontà da parte del paziente, con il limite, comunque, di attenersi alla sola assistenza e alle cure indispensabili. Permane, anche in questi casi, il divieto dell’accanimento terapeutico.  Con la pubblicazione dell’ultimo codice deontologico, nel 1998, appare evidente che l’argomento relativo al consenso sia ormai un fatto acquisito dalla cultura medica. L’art. 30/1998 riferisce in modo chiaro e semplice quali siano i requisiti dell’informazione da fornire ai fini di un consenso al trattamento (diagnosi, prognosi, prospettive, eventuali alternative terapeutiche, prevedibili conseguenze delle scelte operate). Stabilisce che l’informazione dev’essere idonea, quindi aderente alla realtà e data tenendo conto delle capacità di comprensione del paziente, in modo da favorirne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Non si fa più riferimento a eccessi paternalistici o professionali probabilmente dando per acquisito che lo standard dell’informazione debba essere quello medio, il cui raggiungimento potrebbe essere sintetizzato in ciò che Lecaldano definisce come la “competenza decisionale” del paziente per la quale, non conta riuscire a seguire “complesse connessioni tra malattie e terapie, ma piuttosto (...) avere chiarezza sui dolori e le sofferenze previste, le menomazioni, la durata e la qualità della vita che resta”7.

Viene confermato che nei casi di prognosi infausta le informazioni debbano essere fornite con prudenza e con termini non traumatizzanti, direttamente al paziente, a meno che (e questo è un fatto nuovo) non sia egli stesso a chiedere, per iscritto, che venga informata in sua vece una terza persona.

È importante questo nuovo passaggio perché introduce per la prima volta la figura del “delegato”, persona non necessariamente legata al paziente da vincoli di parentela al quale possono essere fornite le informazioni. L’art. 31, infatti, non parla più come l’art. 30/1995, di informazione “a congiunti”, ma di informazione “a terzi” e richiede per la prima volta l’autorizzazione del paziente fornita in modo esplicito, quindi per iscritto. Il capovolgimento, rispetto ai codici precedenti, è testimoniato dalla raccomandazione contenuta sempre nell’art.  31/1998, di raccogliere, in caso di ricovero ospedaliero, eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dal paziente a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.  Tale novità, evidentemente resasi necessaria a seguito della legge sulla privacy e dell’importanza che la privacy dei singoli sta assumendo sempre più nel pensiero collettivo, fornisce contemporaneamente argomenti che, come vedremo, saranno decisivi per l’acquisizione culturale anche della necessità di direttive anticipate da parte di pazienti o di potenziali futuri pazienti.

L’art. 34/1998, laddove stabilisce che “il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà liberamente espressa della persona” concede al medico di rispettare la volontà espressa dal paziente sempre però partendo dalla propria libertà professionale.  Ciò potrebbe portare a delle interpretazioni ambigue del consenso del paziente, alterate dalla personalizzazione operata dal medico. È evidente che l’intenzione dell’articolo sia di tutelare la coscienza del medico nello svolgimento della professione, oltre che il volere del paziente. Ritengo che forse, nel prossimo codice dovrebbe aggiungersi che, nei casi in cui il medico non sia d’accordo con quanto richiesto dal paziente, per correttezza, lo inviti a rivolgersi ad altro curante. Tale comportamento è, d’altronde, da sempre previsto dal codice nei casi di disaccordo nel rapporto medico-paziente.  Per quanto attiene l’art. 35/1998, vale quanto già asserito per l’art. 34/1995.

Un limite a questa libertà di azione del medico viene comunque sempre dall’art. 34/1998 – e ciò dev’essere accolto con grande plauso dato che mostra l’evidente sforzo operato dall’Ordine dei Medici – laddove afferma che “il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”. È evidente che tale affermazione scaturisce dalla consapevolezza da parte dell’Ordine di un cambiamento socio-culturale ormai avviato e avanzato in gran parte del mondo occidentale.

Certamente la presa di posizione del Consiglio d’Europa con la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina promulgata il 4 aprile 1997, in cui all’art. 9 viene sancito che “le volontà relative a un trattamento medico, precedentemente espresse dal paziente il quale, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la propria volontà, devono essere tenute in considerazione” 8, sia stata fondamentale per tale svolta deontologica. L’art. 34/1998, da canto suo, ha svolto certamente il ruolo di rassicurare il Parlamento italiano della necessità di ratificare la Convenzione di Oviedo, cosa che lo stesso ha effettuato con la legge n. 145 del 28 marzo 2001.

 

Evoluzione giurisprudenziale del consenso all’atto medico

I cambiamenti apportati di volta in volta dai codici deontologici, che si sono susseguiti negli anni, hanno corrisposto a nuove prese di posizione in ambito giurisprudenziale, o ne sono stati influenzati. Riteniamo interessante far qualche accenno alle più importanti sentenze pronunciate in Italia dal 1960 a oggi in tema di responsabilità medica per mancato consenso, al fine di evidenziare l’evoluzione culturale avvenuta nell’ambito della magistratura in tema di consenso all’atto medico9.

La Cassazione Civile, Sezione III, con la sentenza n. 3906 del 6 dicembre 1968, afferma che non ci sono requisiti di forma che vincolino il consenso e che, pertanto, esso può essere implicito. La volontà consenziente del paziente può consistere anche in un comportamento concludente che riveli in modo inequivocabile il proposito di sottoporsi alla prestazione sanitaria, come ad esempio l’atto di ricoverarsi e sottoporsi alle cure del medico. Nel contempo riporta quanto sostenuto da parte della dottrina per cui l’informazione deve essere rimessa alla valutazione discrezionale del chirurgo che adeguerà il proprio comportamento alla natura e urgenza dell’intervento, alle condizioni psichiche del malato, al suo grado di cultura e a ogni fattore suggerito dalle circostanze.  Questa sentenza, perfettamente in linea con il Codice Frugoni (v. prima), documenta l’atteggiamento chiaramente paternalistico che vigeva tra medico e paziente negli anni Sessanta, per cui veniva lasciata al medico qualsiasi decisione su cosa fosse meglio per il paziente, mentre era sufficiente che il paziente si affidasse alle cure del medico per dichiarare il proprio consenso all’atto medico.

Sempre negli anni Sessanta, si afferma la necessità di far precedere non solo la terapia ma anche l’accertamento diagnostico, qualora esso costituisca grave pericolo per la vita o l’incolumità fisica del paziente, da un’informazione onesta sui rischi, finalizzata a un consenso pienamente consapevole del paziente (Cass. Civ., Sez. III, 25 luglio 1967, n. 1950). Tale sentenza interpreta quanto contenuto nel Codice Frugoni, successivamente ripreso con l’art. 39 del codice deontologico del 1978, che richiede il consenso valido specificatamente per gli atti medici che comportino un rischio per il paziente, quindi, non per qualsiasi atto medico.

Negli anni Settanta iniziano, invece, a delinearsi i requisiti di forma del consenso. Con la sentenza Cassazione Civile, Sez. III, 29 marzo 1976, n. 1132, viene stabilito che i temi dell’informazionedevono interessare la natura, l’importanza e la delicatezza dell’operazione, nonché i rischi e i pericoli ad essa connessi, e il risultato, transitorio o permanente, estetico e funzionale che l’operazione residua. Allo stesso modo viene affermato che l’intervento arbitrario del medico costituisce un atto lesivo del diritto all’integrità fisica del paziente, cioè integra gli estremi della lesione personale in ambito penale e del danno biologico in ambito civile.

Ciononostante sarà necessario attendere il codice deontologico del 1989 per trovare una descrizione accurata dei requisiti del consenso (art. 39/1989), mentre quello del 1978 si limita a parlare di consenso valido senza integrarne i contenuti (art. 39/1978). L’attenzione verso la capacità di discernimento del paziente, che ritroviamo nell’art. 39/1989, viene documentata anche dalla giurisprudenza nella sentenza della Cassazione Civile, Sez. III, 12 giugno 1982, n. 3604, laddove richiede ai fini del consenso, un confronto, seriamente scientifico, pur sempre in termini accessibili per il paziente.

Fondamentale per l’affermarsi dell’imprescindibilità di un consenso all’atto medico è stata la sentenza della Corte di Assise di Firenze (n. 13, 18 ottobre 1990) che ha affermato che “nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute e integrità personale, pur nei limiti previsti dall’ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze: il che, a ragione, non può essere considerato il riconoscimento di un diritto positivo al suicidio, ma è invece la riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che (...) riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare”10.  Tale sentenza, da un lato afferma il carattere personale del consenso, dall’altro sottolinea che il parametro su cui si prendono le decisioni di questa natura è la qualità della vita, che può essere interpretata solo dal singolo.

L’illegittimità dell’atto medico privo di consenso giunge ai suoi effetti estremi con la nota sentenza della Cassazione Penale, Sez. V, 13 maggio 1992, n. 5639, in cui il chirurgo viene condannato per omicidio preterintenzionale per aver eseguito su una paziente un intervento più ampio rispetto a quello stabilito, da cui è derivata la morte della paziente stessa. La consapevolezza da parte del chirurgo della mancata richiesta del consenso a un atto di maggior invasività rispetto a quello previsto, dal quale è successivamente derivato il decesso, è stata considerata sufficiente per realizzare l’elemento psichico e quello materiale del reato.

Le ripercussioni in ambito deontologico di tale pronunciamento sono state di grande portata e hanno certamente contribuito a indurre l’Ordine dei Medici a specificare nell’art.  31/1995 il riferimento alle “possibili conseguenze sulla integrità fisica” e a specificare che in questi casi il consenso manifestato in modo inequivocabile è integrativo e non sostitutivo di quello previsto all’art 29.

È evidente che il consenso in quegli anni fosse divenuto ormai un punto cruciale della legittimità dell’atto medico tanto che, nei casi di pazienti che per raggiungere un risultato devono essere trattati da più medici contemporaneamente o in sequenza, la giurisprudenza richiede l’acquisizione del consenso di volta in volta, in ogni singola fase, da parte del medico che in prima persona pone in essere l’atto foriero di rischio per l’integrità psicofisica (Cass. Civ., Sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364).  La rivoluzione operata dalla Convenzione di Oviedo, testimone del cambiamento in atto a livello internazionale, e che ha coinciso con gli articoli già discussi in precedenza contenuti nel codice deontologico del 1998, si rende evidente anche in giurisprudenza quando viene affermato che il paziente è arbitro di se stesso ed esige il rispetto della sua volontà; nel conflitto diritto-dovere tra medico e paziente, prevale il diritto a essere malato purché il rifiuto delle cure non esponga a pericolo la salute altrui (Cass. Pen., sez. IV, 27 marzo 2001, n.  36519). Viene, quindi, riaffermata la libertà del paziente di non curarsi, con le evidenti ripercussioni in ambito di direttive anticipate.

 

Concetto di testamento biologico e sua evoluzione culturale 

Come abbiamo visto, negli ultimi trent’anni si è assistito a un ribaltamento del rapporto medico-paziente documentato dall’evoluzione sia in campo etico, con il succedersi dei codici deontologici, che giurisprudenziale, con la pronuncia di sentenze di merito. Sino agli anni Settanta vigeva una impostazione in senso paternalistico, mentre a partire dagli anni Ottanta si è andato affermando anche in Italia il concetto anglosassone di informed consent, per cui il paziente viene reso partecipe delle decisioni di ordine medico che lo riguardano, con una sempre maggior responsabilizzazione del paziente stesso che è andata di pari passo con la maggior consapevolezza del cittadino verso le questioni mediche.

Il progresso delle possibilità di trattamento ha portato, inoltre, a una sorta di interventismo medico che viene avvertito spesso dai pazienti come eccessivo, per cui i malati stessi cominciano a porre un freno alle cure. Da qui la conseguente nascita del concetto di accanimento terapeutico che è stato acquisito dal codice deontologico italiano soltanto nel 1989 (v.  prima).

Il bisogno avvertito da molti di voler dare, in ogni caso, un proprio consenso o dissenso informato alle terapie, associato al timore di essere vittime di accanimenti terapeutici, ha portato alla necessità di trovare forme di consenso anche nei casi in cui non sia possibile darlo personalmente: così nascono le cosiddette direttive anticipate, anche definite testamento biologico.  Negli Stati Uniti questa esigenza è stata avvertita sin dagli anni Settanta, in particolare nel 1967, quando Luis Kutner coniò per la prima volta il termine living will.

Nel sistema giuridico nordamericano ci si avvale sempre più frequentemente della “pianificazione anticipata delle cure” (advance care planning) in cui il paziente, insieme ai medici e ai familiari, prende delle decisioni sulle cure future, affinché le sue volontà attuali siano rispettate nel momento in cui non sarà più competente, documentandole tramite la compilazione delle Direttive Anticipate che sono composte da due parti complementari: la Direttiva di Istruzione (Living Will) e la Direttiva di Delega (Proxy Directive).

Tale sistema di programmazione delle cure è riconosciuto e operante in numerosi Paesi. Quasi tutti gli Stati americani, il primo fu la California nel 1976, riconoscono legalmente le direttive anticipate che sono contenute in uno specifico tesserino, e, nel 1991, è entrato in vigore il Patient self-determination Act, che impone ai luoghi di cura di informare i paziente circa il loro diritto ad avere una direttiva anticipata; in Inghilterra non è riconosciuto espressamente dalla legge, ma la giurisprudenza non mette in dubbio la sua validità e l’Ordine dei Medici ha pubblicato un libro in cui spinge i medici a utilizzare il living will; la Spagna nel 1989 ha proposto il testamento vital, ma anche qui non vi è riconoscimento legislativo; l’Olanda riconosce esplicitamente la validità di una dichiarazione scritta del paziente, nell’ambito della legge che definisce le condizioni per il ricorso all’eutanasia; in Danimarca, ove esiste una specifica legislazione, è stato creato un cervellone elettronico in cui vengono custodite le direttive anticipate11.  In Italia in campo etico si assiste a un riconoscimento da parte dell’Ordine dei Medici dei concetti di qualità della vita e di accanimento terapeutico per la prima volta nel codice deontologico del 1989. Anche la giurisprudenza italiana nel 1990 si esprime in modo chiaro affermando il concetto di qualità della vita come fondante il consenso alle terapie con la sentenza della Corte di Assise di Firenze (n. 13, 18 ottobre 1990)La Consulta di Bioetica, nata nel 1989 per discutere sui temi della vita e della morte, propose già nel 1992 una carta di autodeterminazione chiamata “Biocard”, prodotto di una fusione del living will con la delega di decisione in materia data a un fiduciario, con tutte le caratteristiche di una direttiva anticipata, con disposizioni riguardo l’assistenza religiosa e la destinazione del proprio corpo.

Nel 1995 il Comitato Nazionale per la Bioetica affronta il tema ricordando che la desistenza terapeutica, preordinata in un testamento di vita, potrebbe determinare anche dei rischi come la lesione personale, l’omicidio e l’omissione terapeutica.  Comunque, anche se con toni prudenti, si pronuncia in modo sostanziale a favore della legittimità del “testamento di vita”, concludendo che “la legge e i codici di deontologia possono certamente aiutare a definire una prassi accettabile per le condizioni di incompetenza decisionale, attraverso l’invito a suscitare una decisione anticipata da parte del malato nei casi che si prospettano come particolarmente dilemmatici e che sono da lui adeguatamente conosciuti, nonché a prendere seriamente in considerazione tali decisioni anticipate come elementi moralmente rilevanti per la decisione clinica concreta”12.

In modo specifico si è anche espressa la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, approvata dal Consiglio d’Europa a Oviedo il 4 aprile 1997, che, all’art. 5, ribadisce come “Nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto vi abbia dato un consenso libero e informato. Questa persona riceve preventivamente un’informazione adeguata riguardo sia allo scopo e alla natura dell’intervento, che alle sue conseguenze e ai suoi rischi. La persona a cui è diretto l’intervento può in ogni momento ritirare liberamente il proprio consenso”13. All’art. 9, che riguarda i “Desideri espressi in precedenza”, la Convenzione recita: “Al riguardo di un intervento medico concernente un paziente che al momento dell’intervento non è in grado di esprimere il proprio volere, devono essere presi in considerazione i desideri da lui precedentemente espressi”.

La propensione generale è dunque di stimolare le normative europee all’adozione di questo strumento operativo e, su questa tendenza, il Codice di deontologia medica italiano nel 1998 all’art. 34, come già visto, afferma che “il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in casodi grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”.

Solo il 14 marzo 2001 il Parlamento italiano ratifica la Convenzione di Oviedo con la legge n. 145 del 28 marzo 2001. Al fine di stimolare un dibattito sul tema, l’Associazione Libera Uscita, nata con l’impegno di promuovere normative in tema di eutanasia e trattamento di malati terminali, a fine 2002, ha redatto una proposta di testamento biologico per la dignità della persona umana, che ha ispirato la proposta di legge n. 4121 presentata alla Camera dei Deputati il 30 giugno 2003 dall’onorevole Benvenuto (v. oltre), riguardante le Disposizioni in materia di dichiarazione anticipata di volontà sui trattamenti sanitari, assegnata il 23 luglio 2003 alla Commissione XII in sede referente.

Recentemente la Commissione di Bioetica della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, rianimazione, Terapie Intensive (SIAARTI) ha redatto le Raccomandazioni per l’ammissione e la dimissione dalla Terapia Intensiva e per la limitazione dei trattamenti in Terapia Intensiva e, all’interno di questo documento, ribadisce il diritto del paziente di autodeterminarsi in merito alle scelte terapeutiche che lo riguardano, incoraggiando la formulazione di una pianificazione anticipata delle cure “per fare in modo che le sue volontà siano rispettate anche qualora subentri uno stato di incapacità mentale per l’aggravarsi delle condizioni cliniche. Al verificarsi dello stato critico l’intensivista deve tener conto di tali volontà precedentemente espresse”. Di cruciale importanza per l’argomento in oggetto è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che costituisce la parte II del Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, e che al Titolo I, “Dignità”, stabilisce che la dignità umana è inviolabile e che ogni individuo ha diritto alla vita e alla propria integrità psico-fisica. La Carta ha sentito la necessità di stabilire, inoltre, esplicitamente che in ambito medico “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge” deve essere rispettato. Ne deriva, pertanto, che ciò che è inviolabile è la dignità dell’uomo, mentre la vita e l’integrità psico-fisica sono un diritto (non un dovere), e ciò che deve essere rispettata è la volontà dell’individuo interessato circa quanto gli prospetta la medicina. Tali affermazioni, che essendo inserite in una Costituzione assurgono a diritto assoluto, potranno dare l’avvio a un dibattito sulle direttive anticipate che parta da basi solide in cui il concetto di diritto – e non di dovere – alla vita e all’integrità psico-fisica sia un dato certo; ma, e ciò è più importante ai fini del tema in oggetto, che la volontà espressa secondo le modalità di legge deve essere rispettata. Ne consegue che, qualora una norma giuridica legittimi le direttive anticipate come espressione libera e personale dell’individuo, anche quando egli non è più in grado di esprimerla con la propria voce o con i propri gesti, il medico sarà tenuto non a prenderla in considerazione – punto a cui si è giunti sino a oggi – ma a rispettarla.

In pratica, la Carta recepisce la Convenzione di Oviedo e va oltre, sempre nell’ipotesi di una legittimazione nazionale attraverso normative specifiche. Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha formulato un parere sulle direttive anticipate, il 18 dicembre 2003, nel documento Dichiarazioni anticipate di trattamento.

Questo è un fatto importante perché, come è già accaduto in passato, ogniqualvolta il Comitato pubblica una risoluzione su un dato argomento, entro pochi anni il legislatore emana una legge che si basa sui contenuti di quanto espresso dal CNB. Ciò significa che è verosimile che la discussione si avvii in Parlamento in modo definitivo stimolata da disegni di legge ispirati alle dichiarazioni (v. oltre).

Il documento, come tutti i documenti del CNB, è molto equilibrato e affronta i vari punti in modo scientifico e corretto.  Di seguito verranno estrapolati e discussi gli aspetti che maggiormente potranno condizionare una eventuale futura normativa in materia.

Alcuni dei principi a cui si richiama il CNB sono quelli sanciti dall’art 35 del codice deontologico del 1998 che stabilisce che il medico, in caso di persona non in grado di esprimere al momento volontà contrarie, deve contestualizzare le precedenti manifestazioni del paziente prestando “l’assistenza e le cure indispensabili”, e dall’art. 36 che vieta al medico i trattamenti diretti a provocare la morte. Ora, se la contestualizzazione di eventuali dissensi, espressi dal paziente in precedenza, a trattamenti senza i quali può sopraggiungere la morte, oppure a cure indispensabili per la vita, deve tramutarsi nella facoltà del medico di poter decidere di “disobbedire” alle richieste scritte, l’obiettivo delle direttive anticipate si svuota di significato. È indispensabile, pertanto, che la futura normativa si esprima in modo chiaro a tale riguardo. 

Il CNB afferma l’importanza delle direttive ai fini di “rendere ancora possibile un rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere”. Questo passaggio rappresenta un grande passo avanti nella comprensione della materia in quanto dimostra come sia stata recepita nella sua complessità la necessità, avvertita dal mondo medico e giuridico ormai da tempo, di trovare un modo per dare voce al paziente che non l’ha più. L’accusa fatta da più parti alle direttive anticipate di poter causare l’abbandono terapeutico viene esorcizzata dal CNB quando afferma che le direttive “non possono mai essere applicate burocraticamente e ottusamente, ma chiedono di essere calate nella realtà specifica del singolo paziente e della sua effettiva situazione clinica”. Ciò, se da un lato può essere rassicurante, dall’altro appare pericoloso ai fini di un effettivo rispetto della volontà del paziente. In altre parole, se la realtà specifica e l’effettiva situazione clinica corrispondono alla condizione di non ritorno paventata dal sottoscrittore, non può essere concesso al medico il diritto di appellarsi al pericolo di abbandono terapeutico per giustificare la continuazione delle cure. Valgono anche per questo punto le considerazioni espresse riguardo alla possibilità di contestualizzare la situazione del paziente (v. prima).

Al punto 4 (astrattezza e ambiguità delle direttive anticipate), il CNB pone “un primo e decisivo argomento contro una rigida vincolatività delle dichiarazioni anticipate, che, anche se redatte con estremo scrupolo, potrebbero rivelarsi non calibrate sulla situazione esistenziale reale nella quale il paziente potrebbe venire a trovarsi”. Questa affermazione, così come quelle già discusse e altre che verranno esaminate, pongono dei seri limiti all’applicabilità delle direttive anticipate, per cui richiedono grande chiarezza giuridica.

Il CNB ritiene fondamentale la figura del fiduciario a cui viene dato “un pieno e compiuto diritto-dovere a essere punto di riferimento” del medico nel rapporto con il paziente. La sua autorevolezza consiste nel dover individuare, nel dialogo con il medico, il miglior interesse del paziente incapace ed è evidente che il suo ruolo potrà essere svolto appieno soltanto se verrà recepita e ammessa la lealtà del suo comportamento.

Circa i contenuti delle dichiarazioni anticipate (punto 6), il CNB sottolinea che quanto richiesto dal paziente nelle direttive deve corrispondere a richieste che qualsiasi paziente in grado di dare un consenso o dissenso valido potrebbe legittimamente fare. Ciò significa che non è possibile richiedere pratiche eutanasiche – comunque illegali – mentre è possibile chiedere “la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche nei casi più estremi o tragici di sostegno vitale”. Apparentementecorrette, queste affermazioni però portano il CNB, in un secondo tempo, a dividersi tra i sostenitori di direttive valide per qualsiasi trattamento, e sostenitori di direttive che riguardino solo i trattamenti ritenuti accanimento, perché inutili o addirittura futili. Tale seconda ipotesi sembra un controsenso dal momento che i trattamenti futili, o, comunque, le forme di accanimento terapeutico sono ormai vietate da almeno dieci anni dai codici deontologici; pertanto, non vi è alcun motivo perché un paziente debba esprimersi nei loro confronti con un dissenso. Ciononostante, la tendenza a vedere il testamento biologico come un’arma contro l’accanimento terapeutico è trasparsa spesso nel dibattito realizzatosi in campo bioetico14. Ferma restando l’incertezza dei confini dell’accanimento terapeutico, è chiaro che ciò che i testamenti biologici si prefiggono è di dare voce al paziente riguardo a trattamenti legittimi, quindi, utili e non futili, che, se fosse stato cosciente, avrebbe potuto rifiutare.

Al punto 7 il CNB pone in dubbio il carattere di attualità delle direttive, sottolineando che anche da un punto di vista penalistico non garantiscono l’attualità della reale volontà del paziente.  Viene a mancare, a parere del CNB, il requisito dell’immediatezza, fondamentale per la validità del consenso. In realtà, come osserva Neri, più che di attualità della volontà, “si dovrebbe piuttosto parlare di attualità del consenso o dissenso, che è un requisito logico e non meramente cronologico e può permanere nel tempo se permangono le condizioni in riferimento alle quali l’espressione della volontà è stata prestata”15.  In realtà, il rischio paventato viene, invece, consapevolmente assunto dal paziente nel momento in cui redige una direttiva anticipata. In pratica, coloro che sottoscrivono tale documento accettano quella percentuale di rischio di poter cambiare idea, d’altronde insita in tutte le decisioni che prendiamo nel corso della nostra vita. Chi non si sente di correre questo rischio, non prenderà mai in considerazione un testamento biologico.

A questo proposito il Comitato afferma che il paziente rischia che gli vengano negate, per eccesso di zelo nel seguirne le indicazioni, cure determinanti per la guarigione della sua patologia che prima non erano conosciute. Il CNB sembra, pertanto, riferire il rischio di mancata terapia essenzialmente alle situazioni che potrebbero essere caratterizzate “dalla sopravvenienza di nuove acquisizioni scientifiche, di nuove tecniche di trattamento, tali da rendere curabile – o comunque diversamente curabile rispetto alle previsioni del paziente –una patologia precedentemente conosciuta come irrimediabile”.  Se così fosse, si tratterebbe di un non-problema, in quanto le direttive sottoscritte si riferiscono sempre a malattie incurabili o curabili a discapito di una sufficiente qualità di vita.  Se, invece, le conoscenze, nel frattempo, hanno portato a un mutamento tale da rendere la malattia curabile con sufficiente qualità di vita residua, allora non costituirà più la fattispecie contemplata nella direttiva che, di conseguenza, decade.  D’altronde, lo stesso CNB ammette che dubitare della validità attuale delle direttive corrisponderebbe a inserire uno spazio al paternalismo medico e che, se si pensa alla possibilità di esprimere una volontà anticipata riguardo alla donazione dei propri organi, si vedrà che esiste già una strada giuridica aperta verso “l’accreditamento legale della volontà espressa, anche mediante il silenzio, dal soggetto in vita”.

La possibilità di un cambiamento nella prospettiva terapeutica insorta successivamente alla redazione delle direttive viene ripresa al punto 8 per affermare che la vincolatività delle dichiarazioni deve lasciare spazio per l’esercizio dell’autonoma valutazione del medico. La questione posta in questi termini appare un non-problema per i motivi dianzi esposti (v.  prima), e non deve, invece, lasciare spazio a un’autonoma interpretazione da parte del medico di qualsiasi situazione venga sottoposta al suo giudizio.

Ricorda il CNB, sempre al punto 8, che in una precedente stesura della Convezione di Oviedo, i desideri del paziente venivano indicati come determinanti e solo in quella definitiva sono stati indicati come da tenere in considerazione. Tale passaggio, secondo il CNB, non va inteso come un’eccessiva apertura al paternalismo medico, anche se, in realtà, ciò può accadere.  Il problema alla base, in fondo, è sempre quello della compatibilità tra professionalità medica e autonomia del paziente, la cui “convivenza pacifica” viene da molti auspicata16.

Estremamente ambigua è l’affermazione nell’ultimo paragrafo del punto 8 che “se il medico, nella sua autonomia, dovesse diversamente convincersi, avrebbe l’obbligo di motivare e giustificare in modo esauriente tale suo diverso convincimento, anche al fine di consentire l’intervento del fiduciario o curatore degli interessi del paziente”. Tale affermazione, come si vedrà, costituisce una parte importante delle conclusioni a cui giunge il CNB (v. oltre), e, se considerata nel contesto di quanto prima espresso riguardo le nuove eventuali possibilità di cura, può trovare una giustificazione, ma, in caso contrario, può porre le basi per una eccessiva autonomia del medico nel valutare se “obbedire” o meno al paziente. Viene, inoltre, da domandarsi in questi casi quale sarebbe il ruolo e il potere del fiduciario.

Giustamente il CNB, al punto 9, auspica una corretta divulgazione delle direttive anticipate che abbia l’unico obiettivo di favorire la loro corretta formulazione e applicazione per coloro che intendano avvalersene.

Infine, dopo aver esaminato i punti a favore e contro, il CNB auspica un intervento legislativo in tema di consenso e di dichiarazioni anticipate che risolva tutte le questioni controverse ad esse collegate, rendendole giuridicamente inappuntabili.  Nel redigere le Raccomandazioni bioetiche conclusive, al punto 10, il CNB si limita ad auspicare al punto b) che “la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate, imponendogli, sia che le attui sia che non le attui, di esplicitare formalmente ed esplicitamente in cartella le ragioni della sua decisione”, senza fare riferimento al fatto che il problema si debba porre essenzialmente riguardo a nuove cure scoperte dopo la redazione delle direttive, come, invece, precisato al punto 8. Il rischio che si corre è che il legislatore – soffermandosi principalmente sulle conclusioni del CNB – formuli una legge che ammetta un comportamento difforme del medico, giustificato in cartella, ma senza specificare che esso può essere motivato solo da fatti nuovi scientificamente provati.

 

Tentativi di legiferazione

Che i tempi siano maturi per una discussione su questo delicato tema è testimoniato da alcuni progetti di legge che si sono susseguiti, sin dal 2002, e che hanno tentato di inquadrare giuridicamente il problema del consenso ai trattamenti sanitari.

Appare interessante esaminare come l’impostazione degli articoli sia mutata nel tempo.

Si tratta di quattro disegni di legge presentati nel corso dell’attuale XIV legislatura dal maggio 2002 sino al maggio 2004 e proposti di iniziativa della senatrice Acciarini17 (n. 1437), dei senatori Ripamonti e Del Pennino18 (n. 2279), del deputato Benvenuto19 (n. 4121) e del senatore Tomassini20 (n. 2943).

Tali proposte di legge contengono al loro interno anche un tentativo di legiferazione in tema di consenso di paziente capace, e, all’art. 1 affermano per legge il diritto del paziente all’informazione circa il proprio stato di salute, salvo espresso rifiuto dello stesso, ciò in linea con l’art. 30 del codice deontologico del 1998. Le caratteristiche del contenuto dell’informazione e le modalità con cui fornirla sono coerenti con i codici deontologici del 1995 e 1998 e riguardano la diagnosi, la prognosi, la natura, i benefici, i rischi delle procedure diagnostiche e terapeutiche suggerite dal medico e le possibili alternative alle stesse, nonché le conseguenze di un rifiuto. L’obbligo di informare permane anche quando le condizioni del paziente sono gravi e, in tal caso, il medico deve adottare cautele nella comunicazione, salvo che il paziente rifiuti di conoscere il proprio stato (n. 1437 e n. 2279). Il disegno n. 2279 prevede che il medico nei casi particolari si consulti con i congiunti stretti (mal si comprende se per comprendere meglio la psicologia del paziente o, addirittura, per decidere l’opportunità di informarlo), con ciò andando contro l’impostazione del CD 1998 che raccomanda di informare solo le persone indicate dal paziente (v. prima). Il disegno n. 4121 raccomanda cautela nella comunicazione in ogni caso. Queste raccomandazioni prendono atto di quanto indicato dal CNB nel documento del 1995, di utilizzare uno standard medio di comunicazione.  Gli artt. 2 dei disegni n. 1437 e 2279, affermano il diritto di ciascuno a esprimere il proprio consenso o dissenso agli atti medici mentre il disegno n. 4121 fa esplicito riferimento ai trattamenti medici appropriati. Tale precisazione appare corretta dato che, come già discusso in precedenza, sarebbe insensato chiedere il consenso a trattamenti inappropriati o futili, cioè all’accanimento terapeutico.

L’eventuale rifiuto dev’essere considerato valido anche successivamente a una sopravvenuta perdita della capacità naturale (n. 4121), anche nei casi in cui ne derivi un pericolo per la vita o la salute del paziente. Questa fattispecie corrisponde ai casi in cui il dissenso viene dato oralmente o per iscritto contestualmente alle terapie proposte da un paziente valido che, per aggravamento delle condizioni fisiche, perda la capacità di intendere e di volere, e stabilisce che in questi casi la volontà non può non essere considerata attuale. Tale affermazione trova un fondamento, rafforzandolo, nell’art. 9 della Convenzione di Oviedo, dove si obbliga il medico a tenere in considerazione i desideri espressi dal paziente e, corrisponde a quanto auspicato dalla SIAARTI nelle sue Raccomandazioni per l’ammissione e la dimissione dalla Terapia Intensiva e per la limitazione dei trattamenti in Terapia Intensiva (v. prima). Meno vincolante è, invece, l’affermazione, contenuta nei Disegni n. 1437 e n. 2279, che la “dichiarazione di volontà può essere formulata e restare valida per il tempo successivo alla perdita della capacità naturale”. Non aver utilizzato l’espressione “dover restare valida”, indica un’adesione alla posizione della Convenzione di Oviedo che raccomanda di “tenere in considerazione” le volontà espresse dal paziente, senza affermare con forza la vincolatività per il medico delle stesse. Viene, altresì, derubricata la fattispecie di lesioni personali o omicidio prevista per questi casi. Gli artt. 3 dei disegni di legge trattati affrontano il tema delle direttive anticipate dando a ciascuno la facoltà, non l’obbligo, di redigere una dichiarazione anticipata di volontà la cui validità permane in caso di “perdita della capacità naturale valutata irreversibile sulla base delle conoscenze attuali”. Anche in questo caso i disegni n. 1437 e 2279 utilizzano il può, mentre il n. 4121 il deve.

Tali affermazioni equivalgono a inserire nei casi previsti tutti quelli riconosciuti dalla medicina come irreversibili, e, quindi, anche ad esempio lo stato vegetativo permanente (SVP) che, come noto, è una situazione irreversibile di perdita di coscienza. Per tali casi le dichiarazioni anticipate forniranno indicazioni su ciò che si desidera venga o non venga fatto.  Soltanto il disegno n. 4121 appare particolareggiato per quanto riguarda il testamento biologico vero e proprio, specificando che, nel caso di malattie allo stadio terminale o implicanti l’uso permanente di apparecchiature o di altri sistemi artificiali, ovvero nel caso di lesioni cerebrali invalidanti e irreversibili, è diritto del paziente di poter esprimere la propria volontà: a) di rifiutare qualsiasi forma di rianimazione o di continuazione dell’esistenza dipendente da apparecchiature e di non essere sottoposti ad alcun trattamento terapeutico; b) di non essere sottoposti all’alimentazione artificiale e all’idratazione artificiale (fattispecie che si pone nei casi di SVP); c) di poter fruire, in caso di gravi sofferenze, degli opportuni trattamenti analgesici, anche qualora gli stessi possano accelerare l’esito mortale della patologia in atto (fattispecie già ammessa come rischio eventuale anche da Papa Pio XII nel 1957).  Tutti i casi considerati prefigurano richieste legittime, che se il paziente fosse cosciente avrebbe il diritto di chiedere e il medico di rispettare (trattamenti appropriati). I disegni prevedono la nomina di una persona che rappresenti le volontà del paziente in caso di incapacità sopravvenuta (fiduciario).

I disegni prevedono che la dichiarazione debba essere formulata per iscritto, con data certa e sottoscrizione autenticata sottoscritta, e sia sempre modificabile e revocabile. Il n. 4121 prevede la sottoscrizione, oltre che del paziente e dell’eventuale fiduciario, anche di altri due testimoni, e che, in caso di ricovero, debba essere sempre allegata in cartella e debba avere un valore vincolante per i sanitari; nonché la facoltà delle associazioni depositarie di presentare la dichiarazione, in vece del fiduciario o del paziente stesso, in caso di impedimento.  In caso di mancata indicazione del fiduciario, i disegni impongono al giudice tutelare di provvedere a tale nomina e, nei casi controversi, sanciscono che spetta al giudice del luogo ove ha dimora l’incapace di decidere in conformità alle dichiarazioni stesse.

Il disegno di legge n. 2943 del maggio 2004 viene esaminato separatamene in quanto è l’unico pubblicato dopo le dichiarazioni del CNB e, quindi, appare interessante verificare l’influenza che tale documento può aver esercitato.

Sin dal primo articolo si osserva una grande differenza rispetto agli altri: viene sentita la necessità di chiarire in anticipo alcune terminologie che verranno utilizzate nel testo di disegno di legge, ciò corrisponde a un’adesione al modello anglosassone, come sottolineato dal Pocar nelle note ai disegni di legge che stiamo esaminando21. In particolare, viene spiegato il termine testamento di vita, che, peraltro, compare per la prima volta in modo esplicito, e forse non troppo corretto essendo una traduzione letterale del termine living will, e viene chiarito che trattasi di un atto scritto con il quale ciascuno dispone in merito ai trattamenti sanitari e al destino del proprio corpo dopo la morte; il termine mandato in previsione dell’incapacità come il contratto che attribuisce al mandatario il potere di compiere atti giuridici in vece dell’interessato divenuto incapace; trattamento sanitario equivalente di ogni atto medico, eseguito con qualsiasi mezzo, con scopi connessi alla salute a fini terapeutici, diagnostici, palliativi ed estetici, nozione, quindi, estremamente ampia; e di persona priva di capacità decisionale come della persona che, anche solo temporaneamente – e questo sembra una puntualizzazione importante perché vi fa rientrare anche incapacità transitorie – non è in grado di comprendere le informazioni sulla sua patologia e le conseguenze che la propria decisione in proposito può determinareIl consenso informato (art. 2 in cui l’informazione presenta le stesse caratteristiche dei disegni precedenti) dev’essere prestato in modo esplicito, da persona libera e consapevole, e rende lecito il trattamento sanitario. Il paziente può rifiutare in qualsiasi momento, del tutto o in parte, l’informazione. Questa specificazione rende conto della dinamicità del rapporto medico-paziente e della sua evoluzione nel tempo.  In caso di incapacità, se non è stato indicato un fiduciario, mandatario, amministratore di sostegno o tutore, si torna agli orientamenti antichi che prevedono il ricorso ai parenti sino al quarto grado, ovvero al giudice tutelare, mentre sarebbe più opportuno, in linea con il CD 1998 far riferimento “a terzi” stabiliti dal paziente stesso (v. prima).

L’art. 5 c. 122 pone problemi di interpretazione facendosi chiaro riferimento allo stato di necessità, seppur solo parzialmente riportato, in cui la vita è in pericolo o l’integrità fisica è minacciata. In realtà, così come è stato concepito, questo articolo potrebbe essere utilizzato anche nei casi di rifiuto di trattamenti di fine vita o salva vita, e, inoltre, non si comprende cosa si intenda per minaccia all’integrità fisica. Una formulazione più compiuta potrebbe essere quella che al posto dell’ovvero riportasse la congiunzione e, perché solo in questo modo risulterebbe chiaro che si tratta di casi in cui non esiste un parere espresso in precedenza. Altrettanto oscura appare l’interpretazione del c. 4 dell’art. 1223 laddove prevede una attività rivolta ad indagare e ricostruire il significato da attribuire alle dichiarazioni dando in questo modo, a non si sa bene chi, un ampio margine di discrezionalità interpretativa delle volontà espresse.

L’art. 13 prevede un collegio medico che verifichi lo stato di incapacità del paziente in analogia con la legge n. 578 del 1993 recante le Norme per l’accertamento e la certificazione di morte e con il disegno di legge n. 2758/A.S. del 17/2/2004 sulle Norme per la depenalizzazione dell’eutanasia, presentato dall’onorevole Battisti. La presenza di tre specialisti rappresenta un elemento rassicurante in più anche se, nel caso specifico, mal si comprende di quale incapacità si tratti. Il neurologo, infatti, è necessario per valutare i vari gradi di coma, ma la presenza dello psichiatra fa ritenere che si possano considerare anche stati di incapacità di natura psichiatrica, cosa che non sembra contemplata nel disegno di legge, a meno che non rientrino negli stati di incapacità transitoria, e ciò potrebbe avere risvolti pericolosi.

Estremamente rassicurante è il c. 6 dell’art. 13 laddove afferma senza dubbiezza alcuna che il medico può disattendere le richieste del paziente soltanto qualora “siano divenute inattuali o inadeguate dal punto di vista scientifico e terapeutico”, aderendo pienamente alle indicazioni del CNB contenute non nelle raccomandazioni finali ma nel contesto del documento, anche se, come già riferito in precedenza, qualora esistano nuove terapie possibili, il dissenso espresso nel testamento di vita dal paziente non può essere applicato in questi casi perché si riferisce a una fattispecie differente, e, cioè, in cui la cura è inefficace. Ribadiamo, pertanto, che questo comma è comunque pleonastico. Un’altra interpretazione è quella riportata dal Pocar secondo la quale questo comma potrebbe aprire la strada a molti casi di disattenzione della volontà espressa, ad esempio nei casi dei testimoni di Geova, dove le cure rifiutate sono appropriate da un punto di vista scientifico e terapeutico, e potrebbe infine ridursi a essere applicato solo nei casi di accanimento terapeutico (che al contrario, dovrebbero essere rifiutati a priori, v. prima). Questo pericolo esiste effettivamente, anche se la dizione “qualora siano divenute” porta a ritenere che si tratti di cure non conosciute dal paziente all’epoca in cui ha redatto il testamento e non di cure specifiche esplicitamente da lui rifiutate (come ad esempio la trasfusione di sangue nei testimoni di Geova.  Per quanto riguarda altri aspetti del disegno di legge n.  2943/04 rimandiamo a quanto molto efficacemente già osservato dal Pocar. Dall’escursus storico, deontologico e giurisprudenziale esaminato, riteniamo di poter affermare che l’iter naturale, che ha preceduto nei vari Paesi una seria discussione e soluzione del problema delle direttive anticipate, sia ormai da considerarsi concluso in Italia, e si possa, da ora in poi, passare a un dibattito serio e ponderato che porti a una soluzione legislativa. In tal senso, il documento del CNB, la varie iniziative di legiferazione e, non ultimo, l’affacciarsi nel panorama generale di una possibile approvazione concettuale da parte della Chiesa cattolica, si inseriscono perfettamente, in questo momento storico, come base di partenza per una soluzione normativa che dia all’autodeterminazione alla fine della vita il valore di diritto fondamentale della persona che, quindi, “va tutelato indipendentemente dal numero di coloro che effettivamente lo esercitano: anche fosse una persona sola, deve essere garantito”.

 

 

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Stato vegetativo permanente e sospensione dei trattamenti medici

di Gilda Ferrando

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Il consenso informato del paziente

Quando una persona si trova in stato vegetativo permanente è lecito chiedere di interrompere l’alimentazione e l’idratazione forzata? Dato che il malato è in una condizione di perdita irreversibile della coscienza, c’è qualcuno che può fare questa richiesta al posto suo? Queste sono alcuni degli interrogativi che i casi di Eluana Englaro e di Terry Schiavo pongono all’opinione pubblica.

Per tentare una risposta è bene considerare che in questi anni il rapporto medico-paziente è profondamente mutato. Si passa da una situazione in cui era il medico a decidere “secondo scienza e coscienza”, e il paziente non aveva alcuna voce in capitolo, a una in cui la persona diviene protagonista del processo terapeutico. Il segno di questa trasformazione è la rilevanza assunta dal consenso informato del paziente1.

Il principio del consenso informato ha salde radici nel nostro ordinamento. Nella disciplina costituzionale vengono in primo piano la tutela e promozione dei diritti fondamentali della persona, della sua dignità e identità (art. 2), della libertà personale (art. 13), della salute (art. 32). La Corte di Cassazione2 e la Corte Costituzionale3 hanno messo in luce l’ampiezza di tale principio.  Qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, sia di natura terapeutica che non terapeutica, non può avvenire senza o contro il consenso della persona interessata, in quanto la “inviolabilità fisica” costituisce il “nucleo essenziale” della stessa libertà personale4.  Per contro, l’imposizione di un determinato trattamento sanitario si giustifica soltanto se previsto da una legge che lo prescrive anche in funzione di tutela di un interesse generale e non soltanto a tutela della salute individuale5 e se è comunque garantito il rispetto della “dignità” della persona (art. 32 Cost.).

Al riguardo occorre fare almeno due precisazioni. Il principio del consenso non riguarda solo i trattamenti terapeutici, ma più in generale ogni atto medico che, sia pure per finalità diverse, sia invasivo della sfera fisica della persona. Lo hanno chiarito la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione con riguardo al prelievo del sangue compiuto “a fini di giustizia”, vale a dire per raccogliere elementi di prova nell’ambito di un procedimento6.  A livello di principi generali nel nostro ordinamento ha ormai piena cittadinanza il riconoscimento dell’autonomia della persona, la quale, intesa in senso negativo, comporta che nessun trattamento medico può essere compiuto senza e, a maggior ragione, contro la sua volontà, mentre, intesa in senso positivo, implica “il potere di disporre del proprio corpo”7.  Questo principio trova riconoscimento nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina (ratificata con legge 2001, n. 145) e nella Carta di Nizza (art. 3). Tali fonti sovranazionali non hanno ancora (per motivi diversi una dall’altra) pieno valore giuridico nel nostro ordinamento, ma costituiscono per l’interprete una significativa conferma di scelte di fondo che la nostra Carta costituzionale ha già effettuato. Il principio del consenso trova chiara enunciazione anche nel Codice di deontologia medica e in numerose leggi speciali, a partire da quella istitutiva del servizio sanitario nazionale (art.  33, legge n. 833/1978), per giungere a quella più recente, il dlgs. 24.6.2003, n. 211 in tema di sperimentazione clinica. In secondo luogo, l’ampiezza del principio si comprende meglio se lo si mette in relazione con la nuova dimensione che ha assunto il concetto di salute e, di conseguenza, quello di “diritto alla salute”8. La salute ormai da tempo si proietta oltre la mera dimensione fisica della persona per abbracciare a pieno titolo la sfera psichica9. Essa, inoltre, non viene più intesa esclusivamente in termini oggettivi, come assenza di malattia, ma deve essere considerata in relazione alla percezione che il soggetto ha di sé, del proprio stato fisico e mentale, perché lo star bene coinvolge gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto stesso. Si assiste a un passaggio dell’idea di salute come standard (l’uomo sano) al vissuto. Non c’è più (soltanto) un metro oggettivo su cui misurare, con gli strumenti della scienza, la salute, ma occorre tenere conto dell’esperienza individuale, dell’universo di valori culturali, religiosi, familiari, con i quali la salute deve armonizzarsi10. In quanto elemento del più complessivo quadro dei diritti fondamentali della persona, la salute diviene apprezzabile sulla base di una valutazione soggettiva riferita all’intera esperienza vissuta dal paziente11.

Il rapporto medico-paziente ne esce trasformato: se la salute, il bene del paziente, non può essere determinato solo in termini oggettivi, ma deve tenere conto di profili dell’esperienza individuale, la scelta terapeutica non può essere fatta solo dal medico, forte della sua competenza scientifica, ma deve essere il risultato di un processo dialettico tra medico e paziente. Del consenso informato si può parlare come di un “mito” o, esasperandone i profili formali, lo si può riguardare come momento da cui prende le mosse quel processo di contrattualizzazione del rapporto medico-paziente che ha come epilogo la medicina difensiva. Se, tuttavia, si considera il rapporto medico-paziente nella prospettiva di una “etica della cura”, il consenso informato può essere riguardato come il processo in cui il medico ascolta e accompagna il paziente in una decisione che spesso coinvolge l’intera dimensione esistenziale, il senso stesso della vita12.

È per queste ragioni che deve essere rispettata la scelta del paziente di non intraprendere certe terapie o di sospendere quelle già iniziate13. Il Codice di deontologia medica prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti (art. 32). La regola deontologica si allinea al disposto costituzionale, per il quale i trattamenti contro la volontà del paziente non sono ammessi se non quando la legge li prescriva espressamente, e sempre che non siano lesivi della dignità della persona (art. 32 Cost.). Sia pur nei limiti della riserva di legge, la giustificazione dei trattamenti coattivi risiede nella salvaguardia dell’interesse generale14, per cui neppure il legislatore potrebbe imporre un trattamento medico al solo fine di salvare la vita del paziente. Il dovere di curarsi, che può scaturire da obblighi morali, da responsabilità verso altre persone, o che può attingere a valori trascendenti, non si traduce in un obbligo giuridico, essendo prevalente il rispetto della libertà della persona e della sua dignità15.

Se il paziente non è in grado di esprimersi, la regola deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino a quando la ritenga “ragionevolmente utile” (art. 37), tenuto comunque conto delle direttive anticipatamente espresse dal paziente (art. 9).

 

La sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiale in pazienti in stato vegetativo permanente

Le decisioni relative a pazienti in stato vegetativo permanente si collocano in questo quadro di principi al centro del quale sta il consenso del paziente, espressione della sua libertà, autonomia, dignità.

Per negare ogni valenza di atto medico all’inserimento e al mantenimento del sondino nasogastrico o della cannula endogastrica, il Comitato Nazionale per la Bioetica nel recente documento su L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, del 30 settembre 2005, ne svaluta il significato considerandolo come un “piccolo intervento iniziale”, in relazione al quale non si porrebbe un problema di consenso/dissenso. Ma si tratta chiaramente di un artificio retorico: il principio del consenso vale per qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, anche per quello così “piccolo” e poco rischioso che è l’inserimento di un ago in vena per il prelievo di un campione di sangue. Secondo l’insegnamento delle supreme magistrature16, la necessità del consenso deriva non dalla natura terapeutica dell’atto, o dalla sua “importanza”, ma dal fatto che si tratta di atti medici comunque invasivi sfera fisica.  È questa invasione di per sé illecita, quando non sia permessa.  Il cuore del problema verte sul modo di intendere l’idratazione, l’alimentazione e le altre cure prestate al paziente in SVP (stato vegetativo permanente). Si discute se esse vadano riguardate come attività terapeutiche, soggette alla regola del consenso, o come ordinaria cura della persona dovuta a chi non è autosufficiente, che da quella regola possono prescindere.

Il recente documento del CNB le definisce come “forme di assistenza ordinaria di base e roporzionata”, eticamente doverose come lo è “fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati, anziani)”. Si tratta di un paragone inaccettabile. Il bambino e l’anziano, per quanto non in grado di procurarsi il cibo da soli, avvertono la fame e la sete, chiedono l’acqua e il nutrimento (il bambino, fin dalla nascita, in modo prepotente), li rifiutano quando sono sazi. Anche nelle fasi terminali di attenuazione o perdita della coscienza l’anziano apre la bocca e deglutisce quando gli viene offerto il cibo, la chiude quando non ne vuole più. Il suo corpo “sa” quando ha bisogno di cibo e quando non ne ha. Nulla di tutto ciò avviene nel paziente in SVP, il quale per questo viene alimentato forzatamente per via nasogastrica o endogastrica.

Non c’è nulla di “ordinario”, “normale”, “naturale” nella condizione del paziente in SVP. Lo mette bene in luce Mauro Barni nella sua “Postilla” al documento del CNB. “L’affermazione che connota il documento del CNB – si legge – secondo la quale l’idratazione e l’alimentazione del pazienti in SVP è da considerare come doveroso ‘sostentamento’ di base del paziente e non come trattamento medico in senso stretto, è espressiva di un inquadramento ideologico del tema, rispettabile ma completamente estraneo alla realtà clinica e alla autonomia tanto dell’assistito (del quale viene disattesa persino una eventuale direttiva anticipata) quanto del medico, siffattamente deprivato della sua fondamentale potestà professionale, ch’è quella di stabilire con scienza e coscienza il momento in cui una terapia anche di mero sostegno vitale si trasforma in futile e impietoso accanimento”.

Ciò non significa, si badi bene, che la diagnosi di SVP “autorizzi di per sé l’abbandono del paziente e di ogni provvedimento curativo”, significa invece che, raggiunta “l’assoluta certezza di irrecuperabilità dopo un tempo che non supera un anno”, la sospensione di ogni trattamento di sostegno vitale diventa “materia esclusiva di una valutazione clinico-scientifica”.  A ben vedere, la condizione del paziente in stato vegetativo permanente non ha più nulla di naturale. Quando il medico interviene con trattamenti di rianimazione sulle persone che hanno subito una lesione cerebrale in conseguenza di un evento traumatico o anossico, lo fa nella speranza di recuperare in tutto o in parte alcuni dei pazienti che hanno subito il trauma.

La rianimazione è praticata per preservare la vita in vista di possibilità di recupero. Quando il tentativo non ha successo e il paziente entra in stato vegetativo permanente, lo stesso trattamento di rianimazione, di alimentazione e idratazione forzata perde la sua giustificazione17. Se il recupero non ha successo, resta la condanna al prolungamento della vita biologica fine a se stesso, la condanna a un trattamento che all’origine non era sostenuto dal consenso del paziente18.

Proprio perché non si tratta di una condizione “normale”, “ordinaria”, come invece ritiene il CNB, è pienamente giustificata la valutazione della proporzionalità delle cure e dell’assistenza rispetto alle prospettive terapeutiche dei trattamenti. Il carattere ordinario o straordinario, proporzionato o sproporzionato di un certo trattamento, compresa l’alimentazione e l’idratazione, non può essere considerato in termini generali e astratti, ma deve essere valutato in relazione alla condizione complessiva in cui si trova il paziente. Il rispetto della dignità della persona può, a ragion veduta, far considerare contrario al suo interesse prolungare un trattamento che appare inutile, proprio perché non riesce a recuperare alla vita, ma soltanto a rinviare la morte.

Non vi è nulla di “ordinario” e “normale” nell’assistenza che viene prestata al malato in SVP. Quello che viene somministrato non è “cibo”, ma una miscela di nutrienti e sostanze chimiche appositamente preparata dai medici, come fa giustamente notare, nella nota integrativa al documento, l’opinione dissenziente sottoscritta da numerosi componenti del CNB. E poi come considerare l’assistenza continua, il fatto di tenere pulito il malato, farlo muovere, prendersi cura del suo corpo per evitare le conseguenze dell’immobilità, del decubito? E come non pensare allo strazio dei familiari che partecipano impotenti alla condizione del proprio caro per il quale non è dato intravedere alcuna possibilità di ritorno alla coscienza, alla vita di relazione?

Ciascuno vive questa terribile esperienza secondo i propri canoni morali, le proprie convinzioni, la propria sensibilità. Se va rispettata la decisione di quelle famiglie per le quali è di conforto prendersi cura del proprio caro, accompagnarlo in questo doloroso cammino, non per questo si è autorizzati a bollare come animati dalla “fredda logica utilitaristica del bilanciamento dei costi e dei benefici” coloro che vogliono che sia rispettato il desiderio del loro caro di morire con dignità, che gli vogliono risparmiare un’esperienza che viene vissuta come un ultimo affronto alla sua umanità. Solo la mancanza di ogni pietà e compassione può far interpretare la loro richiesta di interrompere l’alimentazione e l’idratazione come segno del loro considerare il malato “un ‘peso’ familiare oltre che sociale”.  Diversamente da quel che ritiene il CNB, non vi è in questa richiesta l’intenzione di “abbandonare” il paziente, ma quella di lasciarlo morire in pace, garantendogli l’assistenza che, in considerazione delle sue personali condizioni, è necessaria perché questo avvenga con umanità. Come il paziente cosciente ha il diritto di rifiutare di essere alimentato con il sondino, così quello incosciente deve poter essere staccato, quando questo corrisponda ai suoi desideri e al suo interesse.

 

I modelli di decisione

 Il fatto che il paziente non sia in grado di esprimere alcuna volontà pone, tuttavia, il problema di individuare altri soggetti che decidano per lui se proseguire le cure, fino a quando, o se interromperle. Si possono presentare diversi modelli di soluzione, ben rappresentati, d’altra parte, nelle diverse esperienze giuridiche. Semplificando al massimo, ricordiamo che nell’esperienza inglese19 è il medico a dover prendere le decisioni nel best interest del paziente incapace, sia pur con il controllo delle Corti. Il principio del consenso si arresta di fronte all’impossibilità di prestarlo e allora solo il medico può fare scelte che tengano conto della necessità terapeutica e del migliore interesse del paziente. Una soluzione, questa, che trova consensi in chi ritiene che anche da noi sia il medico a dover apprezzare quando una terapia sia utile al paziente e quando, essendo ormai priva di ogni prospettiva terapeutica, si riveli inutile o futile20.

Nell’esperienza americana domina il concetto di privacy, da intendersi in senso lato, comprensivo dell’autonomia nelle scelte personali. È il paziente che deve dare o togliere il consenso.  Il principio della personalità del consenso appare incompatibile con poteri di rappresentanza dei genitori o di altri soggetti, ragion per cui, nel caso di incapacità, bisogna andare alla ricerca delle volontà espresse prima della perdita della coscienza. Quando vi sia la prova che il paziente non avrebbe voluto essere sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, il medico ha il dovere di desistere da quelli intrapresi21.

La prima decisione della Corte d’Appello di Milano sul caso Englaro, del novembre 199922, muove dalla premessa secondo cui il consenso del paziente può esprimersi anche nel rifiuto di cure. Essa, tuttavia, segue un percorso diverso dai precedenti indicati quando ritiene che, nel caso di pazienti incapaci, la decisione possa a buon diritto essere presa dai soggetti (i genitori o il tutore) investiti di poteri di rappresentanza dell’incapace, i quali sarebbero legittimati anche a chiedere la sospensione di trattamenti di sostegno vitale. La ragione per cui non ritiene di autorizzare l’intervento non è dunque di principio, ma si spiega piuttosto con considerazioni di “merito”, non essendo, a suo dire, sufficientemente evidente, allo stato dell’arte, se l’idratazione e l’alimentazione forzata costituiscano oppure no trattamenti di natura terapeutica23.

Nonostante la decisione sia negativa, il decreto si apprezza per importanti affermazioni di principio in esso contenute. “La vita dell’individuo – si legge in motivazione – va intesa non in senso biologico come un mero fatto meccanico suscettibile di prolungamenti artificiali, bensì come possibilità di relazione e di autorealizzazione, in riferimento alla personalità e alla soggettività dell’uomo, con la conseguenza che la perdita irreversibile della coscienza non può non costituire un limite di ogni trattamento medico, giacché segna il momento in cui cessa definitivamente la possibilità di una vita dignitosa”.  Se, poi – continua la sentenza – si potesse definire “la nutrizione e l’idratazione forzata, somministrate con sonda nasogastrica a E.E. come trattamento terapeutico”, ciò “consentirebbe di invocare il principio di divieto di accanimento terapeutico, basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto dal cdm (art. 14), dai documenti internazionali, condiviso anche in una prospettiva morale-religiosa: il dovere giuridico, etico, deontologico del medico si arresta di fronte all’incurabilità dalla malattia, giacché ogni protrazione della terapia, trasformando il paziente da soggetto in oggetto, viola la sua dignità”.

In queste proposizioni assume un rilievo decisivo il riferimento alla dignità della persona come limite all’azione del medico volta a prolungarne l’esistenza, quando siano definitivamente tramontate le speranze di recuperarlo a una vita cosciente.  La commissione Oleari investita, nell’ottobre del 2000, del problema dal Ministro della Sanità Veronesi, ha concluso che, a prescindere dal suo carattere strettamente terapeutico, il trattamento su pazienti in stato vegetativo permanente può, fuori di ogni ragionevole dubbio, qualificarsi come trattamento di natura medica, che, in quanto tale, trova la sua condizione di legittimità nel consenso del paziente24.

Considerata quella che era la ratio decidendi della sentenza, il pronunciamento della Commissione Oleari avrebbe dovuto avere un peso non irrilevante sulla successiva decisione dei giudici milanesi. Ma così non è stato.

 

Il ruolo dei genitori e del tutore

Stabilito che la nutrizione e l’idratazione sono atti medici soggetti alla regola del consenso, il problema è capire chi è legittimato a esprimere il consenso (o il dissenso) nel caso di paziente minore o incapace.

La Corte d’Appello di Milano nel 199925 ha ritenuto che la decisione spetti al tutore, e più in generale al rappresentante legale. Nello stesso senso si era espressa in anni lontani la Corte di cassazione26. In recenti casi il giudice è stato richiesto di nominare un tutore a persone affette da diabete che rifiutavano l’amputazione di un arto: e in almeno un caso si è proceduto alla nomina nell’evidente assunto che il tutore sia legittimato a dare il consenso all’intervento chirurgico.  La Corte di Cassazione, pronunciandosi sul caso Englaro27, contesta questa affermazione. Il tutore sarebbe privo di “un generale potere di rappresentanza con riferimento ai cosiddetti atti personalissimi”.

Questa affermazione, tuttavia, non tiene conto del fatto che nei casi in cui la legge ha preso in considerazione il problema del consenso al trattamento medico da parte di minori o incapaci ha attribuito poteri sostitutivi al rappresentante legale.  Si segnalano la legge sulla donazione di sangue, cellule midollari e staminali (legge 4 maggio 1990, n. 107), quella sulla sperimentazione (dm 18 marzo 1998)28. Particolarmente significativo è il d.lgs.. 24 giugno 2003, n. 211 relativo alla sperimentazione clinica, il quale considera agli artt. 4 e 5 il caso dei pazienti minorenni e incapaci e stabilisce che il consenso debba essere espresso dai genitori o dal rappresentante legale, precisando che “il consenso deve rappresentare la presunta volontà del soggetto”. Si lascia in tal modo intendere che il rappresentante legale deve fare una scelta rispettosa della personalità e dell’autonomia dell’interessato.

Si tocca in tal modo il problema dei limiti che incontra il potere decisionale del tutore, il quale ha il dovere di agire nell’interesse dell’interdetto. Si tratta di un limite connaturato alla funzione del tutore, reso esplicito, per il consenso al trattamento medico, dalla Convenzione di Oviedo la quale dice chiaramente che un intervento su di una persona priva della capacità di consentire può essere compiuto con il consenso del rappresentante legale solo per suo “diretto beneficio” (art.  6). Sia pur non ancora pienamente in vigore, la Convenzione non è (diversamente da quanto ritiene la Corte di Cassazione) un testo che può essere tranquillamente ignorato in quanto contiene principi che valgono sia come criterio interpretativo per il giudice, sia come linea guida per il legislatore (il quale mostra infatti di tenerne conto: v. il d.lgs. n. 211/2003).  Vediamo allora di esaminare il ruolo dei genitori e del tutore.  Ad essi competono, oltre che poteri di amministrazione e di rappresentanza (artt. 320, 357 c.c.), anche doveri di cura della persona del minore o dell’interdetto, che trovano fondamento, per i primi, nei doveri di natura personale inerenti al rapporto educativo e, per i secondi, nell’espressa previsione di legge (art. 357 c.c.).

Questi poteri di cura della persona spettano ora anche alla persona che sia stata nominata amministratore di sostegno del disabile (art. 404 ss. c.c. introdotti dalla legge n. 6/2004), dovendo il giudice indicare gli atti che questa è legittimata a compiere a tutela degli interessi di natura patrimoniale e personale del beneficiario29.

I doveri di cura della persona si sostanziano non solo in atti materiali con cui si provvede direttamente ai bisogni del figlio o dell’incapace, ma anche in rapporti con altre persone (insegnanti, medici, nfermieri, istruttori sportivi e così via) che concorrono a perseguire il medesimo fine. Il criterio che presiede al loro esercizio è quello del prevalente interesse del minore e dell’incapace30. Per gli atti di cura della persona, come sono quelli relativi al trattamento medico, i genitori o il tutore nell’esprimere il consenso esercitano un ruolo di natura personale che impone loro di tenere conto della personalità del minore o dell’interdetto, di decidere “con” lui e non “per” lui31. In altri termini, nell’esprimere il consenso al trattamento medico per il figlio o per l’interdetto, i genitori e il tutore debbono tener conto dell’opinione che questi è in grado di esprimere, o che ha espresso prima della perdita della coscienza.  La realizzazione del miglior interesse dell’incapace nelle decisioni sanitarie implica l’attuazione del suo diritto alla salute, e il rispetto della sua dignità e libertà. Le stesse leggi speciali prima richiamate, a partire da quella istitutiva del servizio sanitario nazionale, per giungere alla Convenzione europea di bioetica, o al decreto sulla sperimentazione, espressamente richiedono che anche il minore e l’incapace partecipino alla decisione sanitaria, vengano informati, e, in relazione alla loro maturità e consapevolezza, esprimano il consenso32.

 

Stato vegetativo permanente e direttive anticipate

Quando vi sia una perdita irreversibile della coscienza si potrà tener conto delle direttive anticipatamente espresse, secondo quanto dispongono la Convenzione europea di bioetica (art.  9) e il Codice di deontologia medica (art. 34). È vero che né l’uno né l’altro testo attribuiscono un valore vincolante alle direttive anticipate, in quanto si limitano a prescrivere che il medico ne tenga conto, ma questo non significa che esse siano prive di ogni valore.

 

In mancanza di una legge che, come accade in molti altri Paesi, attribuisca ad esse valore, anche da noi non possono essere considerate del tutto prive di efficacia. Il fatto che le direttive anticipate non esprimano una volontà attuale del malato spiega la cautela con la quale le si circonda e la scelta di non attribuire loro un’efficacia incondizionata. In quanto formulate dal paziente in piena consapevolezza, esse sono, tuttavia, un indice attendibile della sua volontà e, ancor prima, del suo modo di intendere la vita, la malattia, la dignità umana.  Esse potranno perciò essere disattese, ma non sulla base di un apprezzamento discrezionale del medico, bensì quando ci siano fondate ragioni per supporre che non corrispondano più alla volontà attuale: ad esempio, quando sopravvengano circostanze che siano chiaro indice di un possibile superamento di quelle intenzioni (mutamento di convinzioni religiose, progressi della medicina che aprono speranze su patologie che in precedenza non ne lasciavano alcuna, e così via).

Lo stesso Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere del 18 dicembre 2003 ha espresso una cauta apertura, chiedendo al legislatore di dare un sostegno giuridico alle dichiarazioni anticipate33. Nel più recente documento sullo SVP il Comitato Nazionale va invece di contrario avviso. Pur ribadendo formalmente il valore del precedente parere, ritiene che la richiesta anticipatamente espressa di sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione sia ammissibile solo nel caso limite in cui esse costituiscano una forma di assistenza “straordinaria”, il che si verifica quando “nell’imminenza della morte l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite”. Altrimenti il CNB ritiene che la dichiarazione anticipata di sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione forzata in paziente in SVP debba essere disattesa. Qui si vede davvero quali siano le conseguenze inaccettabili che derivano dalla premessa per la quale si tratta non di atto medico ma di “ordinaria assistenza di base”. Se infatti è tale la natura del trattamento, “la richiesta di sospensione si configura come richiesta di una vera e propria eutanasia omissiva, omologabile sia eticamente che giuridicamente a un intervento eutanasico attivo, illecito sotto ogni profilo”.

Quando invece, al di fuori di ogni esasperazione ideologica, se ne assuma la natura di trattamenti medici, è evidente che nel decidere la sospensione del trattamento, come per ogni altra decisione terapeutica, si dovrà tener conto delle direttive anticipatamente espresse dal paziente. I genitori e il tutore, nel decidere insieme al medico se proseguire le cure oppure sospenderle, dovranno tener conto delle intenzioni manifestate dal paziente prima della perdita irreversibile della coscienza.

La decisione di sospendere l’alimentazione e l’idratazione nel paziente in stato vegetativo permanente può costituire l’estremo atto di rispetto della sua autonomia e della sua dignità, un atto per il quale si profila l’opportunità del controllo giudiziale, nell’interesse dell’incapace. Si tratterà di verificare la legittimazione dei soggetti che chiedono la sospensione delle cure, la condizione di irreversibile perdita di coscienza, l’inutilità delle cure, le intenzioni precedentemente espresse (se intenzioni al riguardo erano state manifestate), tenendo conto, come ha sottolineato nel 1999 la Corte d’Appello di Milano, che, nelle condizioni in cui si trova il paziente in stato vegetativo permanente, proseguire le cure, senza alcuna prospettiva di recupero, appare “lesivo della dignità della persona” e quindi “legittimamente rifiutabile” da parte del tutore.

Il tutore è tuttavia investito del potere di decidere anche quando non risulti una volontà precedentemente espressa. Si pensi al caso del paziente oncologico incapace per il quale tanto il fare quanto il non fare l’intervento chirurgico siano opzioni che presentano margini di rischio che devono essere valutati, o al caso in cui vi sia alternativa tra diversi interventi, che presentano diversi margini di rischi e benefici per il paziente.

In tali casi è il tutore, consultandosi con i medici, a dover prendere una decisione che avrà come parametro di riferimento l’interesse del paziente, la sua dignità di persona. Il problema, a veder bene, non è valutare se è nell’interesse del paziente morire, bensì quello se è nel suo interesse subire un trattamento che gli prolunga la vita in quelle condizioni. In altri termini, quel che occorre dimostrare non è l’interesse a interrompere le cure, ma l’interesse a proseguirle in circostanze in cui è venuta meno ogni speranza di recupero della coscienza e della vita di relazione.

Come bene aveva notato nel 1999 la Corte d’Appello di Milano, “il dovere giuridico, etico, deontologico del medico si arresta di fronte all’incurabilità dalla malattia, giacché ogni protrazione della terapia, trasformando il paziente da soggetto in oggetto, viola la sua dignità”.

Nella sentenza del 1999 la Corte d’Appello di Milano aveva dunque fatto tutta una serie di importanti ammissioni: doveri di cura della persona e poteri di rappresentanza del tutore, anche in ordine alla decisione di sospendere il trattamento quando lesivo della dignità della persona.

 

Tra giudici e legislatore

Nella seconda pronuncia, del 2003, la Corte d’Appello di Milano34 segue una diversa linea di pensiero e, rispetto a questo precedente, fa decisamente un passo indietro. Intanto mette fuori gioco i poteri di rappresentanza del tutore argomentando dal fatto che la Convenzione di Oviedo, per quanto sia stata approvata la legge di ratifica non è ancora “operativa, mancando il deposito dello strumento di atifica”, ma dimenticando che i poteri del tutore sono riconosciuti anche da leggi interne: ad esempio quelle sull’aborto, sulla donazione di sangue, cellule midollari e staminali sulla sperimentazione, e dimenticando il principio che in precedenza aveva individuato in forza del quale tali poteri in termini generali si fondano sul dovere di cura della persona riconosciuto al tutore dal codice civile.

Nello stesso tempo liquida rapidamente il pronunciamento della Commissione Oleari che aveva considerato nutrizione e idratazione forzata come atti medici soggetti alla regola del consenso.

Le conclusioni del gruppo di lavoro, osserva la Corte, “non integrano la pronuncia determinante che ponga fine ai dibattiti qualificatori, pur costituendo una fonte autorevole per la comunità scientifica, che potrà ulteriormente approfondire e chiarire le delicate problematiche che si intrecciano nell’esame della condizione del paziente in stato vegetativo permanente”.  Nella più recente pronuncia l’attenzione si sposta dai poteri del tutore al valore delle direttive espresse dall’interessato prima della perdita di coscienza. Il decreto compie un’ampia disamina della problematica che spazia dai contrastanti orientamenti espressi dalla giurisprudenza tedesca alle raccomandazioni europee, ai pareri del Comitato Nazionale per la Bioetica, alle proposte di legge. Ma questa rassegna di problemi e di modelli di soluzione non offre alcun contributo ai fini della decisione. Osserva la Corte che, pur essendo molti “gli spunti nella cultura etico-giuridica per valorizzare il principio di autodeterminazione”, la Corte è “perplessa” (testualmente “perplessa”) “sull’opportunità/legittimità di un’interpretazione integrativa che sarebbe praeter legem, non già contra legem. È pure perplessa in ordine al possibile espletamento di attività sostanzialmente paranormativa, considerati i dilemmi giuridici, medici, filosofici, etici che si avvertono nei dibattiti della società civile e nelle relazioni dei comitati e delle commissioni investite della tematica. Avverte peraltro che la mancanza di regole lede diritti e interessi che corrispondono a valori costituzionalmente garantiti (artt. 2, 3, 13, 32 Cost.) ed è di ostacolo anche alla soluzione di problemi pratici”.

A giudizio del collegio solo il legislatore potrebbe stabilire regole in una materia come questa, non il giudice. La decisione, conclusivamente, auspica perciò “che il legislatore ordinario individui e predisponga gli strumenti adeguati per l’efficace protezione della persona e il rispetto del suo diritto di autodeterminazione, prevedendo una verifica rigorosa da parte dell’autorità giudiziaria della sussistenza di manifestazioni di direttive anticipate. L’intervento legislativo potrebbe evitare strumentalizzazioni e sofferenze e contribuirebbe alla responsabilizzazione della collettività”.

L’autentica ratio decidendi del rigetto della domanda di autorizzazione consiste, dunque, nella constatazione che manca una disposizione di legge, nell’assunto che solo il legislatore potrebbe dettare norme in materia. In tal modo la Corte dimentica che in caso di “lacune” dell’ordinamento l’art. 12 delle preleggi impone al giudice di decidere facendo ricorso vuoi all’analogia, vuoi ai principi generali dell’ordinamento.  È proprio grazie al ricorso ai principi generali che la Corte di Cassazione ha deciso l’inammissibilità del disconoscimento di paternità da parte del marito che aveva dato il consenso all’inseminazione eterologa della moglie. Riscontrata una lacuna, in quanto, a giudizio della Corte, l’art. 235 c.c. non trova diretta applicazione al di fuori dell’ipotesi di concepimento avvenuto in seguito a un rapporto fisico della moglie con persona diversa dal marito, la Corte fa ricorso ai principi generali (principalmente, il divieto di venire contra factum proprium, e il principio di responsabilità nella procreazione) per prendere la decisione35.

 

I giudici milanesi, invece, si arrestano davanti alla “lacuna” dell’ordinamento. Ciò non evita loro di prendere una decisione (infatti non autorizzano), ma fa sì che la decisione di non autorizzare resti priva di giustificazione dal punto di vista normativo e appaia sostanzialmente non motivata. Si può discutere quale sia il principio su cui fondare la decisione: se quello della “sacralità della vita” – come ha fatto il tribunale di Lecco, nel decreto di primo grado36 –, o quello del rispetto della volontà del paziente espressa prima della perdita della coscienza – come fanno i giudici americani – oppure quello del best interest del paziente – come fanno i giudici inglesi – ma il giudice non può limitarsi a restare “perplesso”, rifiutando esprimere un giudizio.

Il problema di come colmare le lacune è comune a ogni ordinamento ed è risolto con varietà di soluzioni37. Ma vi è una comune indicazione di fondo: il giudice ha gli strumenti per colmare le lacune e deve usarli. Questi strumenti sono il ricorso all’analogia e ai principi generali38.

Il ricorso ai principi generali, mancando i presupposti per l’analogia, non è dunque una facoltà del giudice, ma un suo dovere. Che si tratti di opera di creazione giurisprudenziale del diritto, piuttosto che di vera e propria interpretazione39, non dovrebbe spaventare, se è vero che è proprio grazie all’esercizio di questi poteri che il diritto civile si è adeguato alle trasformazioni economiche e sociali, al mutamento dei valori ideali sui quali si fonda la convivenza civile.

I giudici d’appello hanno dunque scelto di non decidere, e la stessa scelta hanno fatto anche i giudici di Cassazione, che hanno dichiarato inammissibile il ricorso presentato contro la sentenza d’appello sulla base di un vizio formale (mancata notifica del ricorso per cassazione a un soggetto, il curatore speciale, che costituisce il necessario contraddittore in giudizio).  La conclusione di questa vicenda è molto triste perché pare davvero che nessuno in Italia (non i giudici, non il legislatore, tanto meno il CNB) sia in grado di assumersi la responsabilità di dare una risposta a una domanda di giustizia che tocca diritti fondamentali della persona umana.

 

 

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Quali strumenti per attuare le direttive anticipate?

di Michele Sesta

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Direttive anticipate e consenso al trattamento medico: le difficoltà ad ammettere il consenso prestato “ora per allora”

Alla luce di una recente ordinanza della Corte di Cassazione, i complessi problemi connessi alla vincolatività delle direttive anticipate – disposizioni che un soggetto può impartire in ordine a scelte concernenti la propria salute per il tempo in cui si trovasse in stato di incapacità – si sono posti nuovamente all’attenzione degli interpreti e del legislatore.

Il tema costituisce senza dubbio un fecondo terreno di riflessione etica, coinvolgendo, allo stesso tempo, questioni pratiche di sicura importanza. Un riconoscimento giuridico delle dichiarazioni anticipate da parte dell’ordinamento contribuirebbe, infatti, a risolvere i gravi problemi che i familiari dei pazienti, il personale sanitario e gli operatori giuridici si trovano ad affrontare nell’ipotesi in cui un soggetto, in stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in epoca antecedente la perdita di capacità di intendere e di volere, il desiderio di non essere tenuto in vita artificialmente, ovvero di una persona, in stato di incoscienza a seguito di un trauma, professante una fede religiosa che gli imponga di rifiutare determinati tipi di cure.

In siffatte ipotesi, il testamento di vita rappresenterebbe un adeguato strumento per dare concreta attuazione al principio di autodeterminazione della persona, la cui vigenza è riconosciuta da numerose fonti normative tanto nazionali che di carattere sovranazionale. Tra queste ultime, sia qui sufficiente richiamare la Costituzione europea, la quale, all’art. II-63, c. 2, stabilisce che, nell’ambito della medicina, debba essere rispettato il consenso libero e informato della persona interessata secondo le modalità definite dalla legge. In essa sono confluite le disposizioni della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina (Convenzione, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata con legge 28 marzo 2001, n. 145), la quale all’art. 5, c. 1, prevede che un intervento nel campo della salute non possa essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Per quanto invece concerne l’ordinamento interno, si deve anzitutto richiamare il dettato della Carta costituzionale, e in modo particolare, oltre all’art. 2, il disposto dell’art. 131, che sancisce l’inviolabilità della libertà personale, e dell’art. 32, c. 2, giusta il quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non sia previsto per legge. Senza alcuna pretesa di completezza, tra le altre disposizioni che ribadiscono la rilevanza del consenso, si annoverano l’art. 33, c. 1, legge 23 dicembre 1978, n. 833 (legge istitutiva del servizio sanitario nazionale), in base al quale, in accordo con il dettato costituzionale, gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari; l’art. 18, legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), che prevede la reclusione da quattro a otto anni per chiunque cagioni l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna, nonché l’art. 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), compendiante un’articolata disciplina del consenso alle tecniche di fecondazione artificiale. Indicative, si rilevano, infine, le disposizioni dettate dal Codice di deontologia medica (approvato il 3 ottobre 1998 dal Consiglio Nazionale della Federazione italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), che all’art. 34, c. 1, prevede l’obbligo per il medico di attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona.

Da quanto sin qui osservato, appare dunque di piana evidenza l’impossibilità di prescindere, in tema di scelte concernenti la salute, dalla volontà dell’interessato, che dovrà essere rispettata tanto nel caso in cui sia volta a ottenere un trattamento terapeutico, quanto nella differente ipotesi in cui sia finalizzata al rifiuto di cure.

Occorre quindi interrogarsi circa la validità del consenso, o del rifiuto alle cure, manifestati in previsione di un futuro stato di incapacità.

Ancorché il nostro ordinamento nulla preveda al riguardo, non mancano indici normativi, corroborati da precedenti giurisprudenziali e da riflessioni dottrinali dai quali è dato evincere una significativa apertura nei confronti del testamento di vita. In primo luogo, è necessario porre in luce come la rilevanza delle direttive anticipate trovi un riconoscimento di carattere legislativo nel dettato dell’art. 9 della Convezione di Oviedo, secondo il quale i desideri precedentemente espressi da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non sia in grado di esprimere la sua volontà devono essere tenuti in considerazione.  Allo stesso modo si esprime peraltro l’art. 34, c. 2, del Codice di deontologia medica prevedendo che il medico, ove il paziente non sia in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non possa non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso.

Un ulteriore segnale verso il riconoscimento del living will è giunto dal parere del Comitato Nazionale per la Bioetica sulle dichiarazioni anticipate di trattamento del 18 dicembre 20032, il quale ammette la legittimità delle direttive anticipate purché non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche o, comunque, in contrasto con il diritto positivo, le regole di pratica medica e la deontologia. Sono altresì significative alcune decisioni dei giudici di merito che hanno talvolta riconosciuto rilevanza a documenti sottoscritti in via anticipata dal paziente3, o alle dichiarazioni di volontà rilasciate ai propri congiunti4.

Accertata dunque la tendenza a conferire rilievo ai desideri precedentemente espressi dall’interessato, non si possono tuttavia sottacere le molteplici difficoltà che si incontrano ad ammetterne la piena vincolatività ed efficacia. La questione è correlata al tema della manifestazione di volontà al trattamento sanitario, dal momento che gli ostacoli ad ammettere il living will nel nostro ordinamento derivano dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale creatasi in materia di requisiti del consenso (o del dissenso) informato. Questo, infatti, per essere considerato efficace, deve essere non solo personale –eccettuati i casi di incapacità dell’interessato, nei quali sarà il rappresentante legale a prestare il consenso alle cure –, ma anche consapevole, libero, gratuito, espresso in modo chiaro e incontrovertibile, e, soprattutto, per quanto qui di interesse, attuale, specifico e revocabile in ogni tempo5.

Le obiezioni più frequentemente mosse nei confronti dell’efficacia delle direttive anticipate fanno proprio leva sull’impossibilità di ravvisare in esse la sussistenza di tali ultimi requisiti.

La prima critica cui si espone il riconoscimento dell’efficacia del consenso manifestato “ora per allora” attiene infatti alla mancanza del requisito dell’attualità, giacché esso risulta del tutto “decontestualizzato” rispetto alla futura e ipotetica situazione nella quale è chiamato a operare. Si sottolinea come, solo con riguardo a una data e concreta situazione di fatto e al processo evolutivo di una determinata patologia, possano essere forniti all’interessato precisi elementi – quali, a titolo esemplificativo, una prognosi attendibile, o le alternative terapeutiche a disposizione – realmente in grado di condurre a una scelta ponderata. Si pone altresì in luce come una siffatta manifestazione di volontà sia destinata a operare in un momento in cui le condizioni mentali e personali dell’interessato potrebbero rivelarsi assai differenti rispetto a quelle in cui venne espressa, senza poi tenere conto dei progressi che la scienza medica potrebbe avere nel frattempo compiuto e del conseguente miglioramento delle prospettive di vita6.  Un’ulteriore obiezione è stata avanzata con riguardo alla mancanza di specificità del consenso manifestato in via anticipata, atteso che gli interventi sanitari sono nella maggior parte dei casi composti da molteplici atti medici – richiedenti differenziate e specifiche competenze professionali – che devono essere singolarmente accettati dal paziente. In particolar modo, se alcuni interventi collegati a quello principale possono essere implicitamente accettati dall’interessato, lo stesso non si può dire qualora tali trattamenti abbiano natura invasiva e comportino determinati rischi (si pensi, a titolo esemplificativo, alla trasfusione di sangue e all’intervento dell’anestesista), giacché essi devono essere autorizzati in maniera specifica.

I rilievi critici appena riportati si fanno meno incisivi allorquando la direttiva anticipata venga formulata da un soggetto che, ben consapevole di essere in procinto di perdere la capacità a causa del decorso di un’accertata malattia degenerativa e pressoché certo delle eventuali cure cui si dovrebbe sottoporre, acconsenta, per il tempo in cui non sarà in grado di decidere, che esse vengano praticate con determinate modalità o non vengano affatto praticate, ovvero, se possibile, scelga una terapia piuttosto che un’altra. In siffatta ipotesi, infatti, il consenso ha un minor grado di astrattezza e genericità ed è il frutto di una scelta compiuta consapevolmente7.

Si è peraltro osservato come le perplessità manifestate con riguardo alla validità delle direttive anticipate possano essere superate prevedendo che, nella stessa dichiarazione anticipata, sia contenuta la nomina di un fiduciario tenuto ad attuare la volontà del disponente e a operare, in mancanza di istruzioni, nel miglior interesse dello stesso, considerando la volontà in precedenza espressa dall’incapace e i valori e convinzioni personali da questo condivisi8. La partecipazione attiva del fiduciario e il suo rapporto dialogico con il personale sanitario rappresenterebbero un punto di riferimento per valutare in modo più sicuro la volontà del paziente, permettendo altresì di ottenere un valido consenso per procedere agli interventi che non potevano essere presi in considerazione dall’interessato.

Ancora, si è notato come le preoccupazioni sollevate con riferimento all’astrattezza e alla generalità del living will possano essere mitigate dalla possibilità di modificare o revocare in qualunque tempo le direttive impartite. Tuttavia, ed è questa non secondaria perplessità suscitata dal testamento biologico, si rileva da altri come il paziente, a causa dello stato di incapacità, non sia in grado di revocare o modificare le proprie disposizioni proprio nel momento in cui più avvertite e consapevoli sarebbero le interne motivazioni in grado di indurlo a tornare sui suoi passi. In altri termini, non è affatto certo che l’interessato, se ancora capace, avrebbe voluto, nell’imminenza di un evento delicato o addirittura fatale, tenere ferma la volontà precedentemente manifestata9.

A ben vedere, potrebbe essere questo il motivo per cui, affacciandosi al tema della vincolatività delle direttive anticipate, la Convenzione di Oviedo e il Codice di deontologia medica si limitano ad affermare che il medico non può non tenerne conto, e il Comitato Nazionale per la Bioetica10, la dottrina maggioritaria, nonché il più avanzato progetto di legge in materia, si esprimono nel senso di non ritenerle pienamente vincolanti per il personale sanitario. Si ritiene, infatti, che il medico possa disattenderle – purché indichi esaustivamente in cartella clinica i motivi della decisione – nel caso in cui, sulla base degli sviluppi delle conoscenze scientifiche e terapeutiche, non risultino più corrispondenti a quanto l’interessato aveva previsto al momento della loro redazione11.

Le direttive assumerebbero, in definitiva, un carattere non assolutamente vincolante, ma, al contempo, nemmeno meramente orientativo dei desideri espressi dall’interessato, i quali dovrebbero essere tenuti in conto a condizione che il medico li ritenga dotati di un sufficiente grado di determinatezza avuto sempre riguardo al miglior interesse del paziente. In merito, si è quindi efficacemente posto in luce come la mediazione del personale sanitario valga ad “attualizzare” il consenso manifestato in via anticipata12, dal momento che il medico è tenuto a valutare, sulla base delle proprie competenze professionali e dei dettami della deontologia, la volontà del paziente nella specifica situazione in cui è destinata a operare13.

 

L’amministrazione di sostegno come strumento attuativo della volontà precedentemente manifestata

Volendo individuare quali mezzi attuativi della volontà precedentemente manifestata si possano trovare nel nostro ordinamento, è d’uopo richiamare la disciplina dell’amministrazione di sostegno – introdotta con legge 9 gennaio 2004, n. 614 –, che viene da più parti indicata come uno strumento attraverso il quale, nell’attesa di una normativa ad hoc, le direttive anticipate possano trovare cittadinanza nel nostro ordinamento15.  La nuova misura protettiva può infatti essere disposta a favore di chi, a causa di una infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovi nell’impossibilità, anche temporanea, di provvedere ai propri interessi (art. 404 c.c.). L’amministrazione di sostegno è informata al principio di flessibilità, che si traduce nel potere del giudice tutelare di determinare, volta per volta, l’oggetto dell’amministrazione e i poteri dell’amministratore, tenuto conto delle residue capacità e delle specifiche esigenze del beneficiario.

Parte degli interpreti, argomentando dal disposto dell’art.  408, c. 2 c.c., intravede in tale misura di protezione una possibile cornice normativa entro la quale inscrivere il testamento biologico16. Invero, la disposizione prevede la possibilità di designare l’amministratore di sostegno in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, cosicché la predetta norma – introducendo nell’ordinamento la facoltà di autoregolamentare la propria futura incapacità17 – richiama la figura del fiduciario per la salute, già presente in alcuni ordinamenti stranieri e menzionata nel progetto di legge approvato il 13 luglio dalla Commissione Igiene e Sanità del Senato18.

Tuttavia, la designazione di cui all’art. 408 c.c. presenta significative differenza rispetto a quella del fiduciario per la salute, dal momento che la nomina dell’amministratore è comunque lasciata dalla legge alla competenza del giudice tutelare, senza perciò acquistare efficacia in forza della mera volontà dell’interessato, ancorché il giudice tutelare, possa discostarsi da essa solo in presenza di gravi motivi19 (art. 408, c.  3 c.c.).

Un’ulteriore ragione per ritenere che l’amministrazione di sostegno possa attuare le funzioni di un testamento biologico si trae dalla circostanza che, secondo parte degli interpreti, l’atto di designazione può essere accompagnato da alcune direttive dettate dall’interessato e concernenti le modalità di svolgimento dell’incarico20.

Resta da verificare il possibile contenuto di tali indicazioni, in modo tale da accertare se i poteri conferibili all’amministratore di sostegno possano coincidere con le statuizioni solitamente contenute nelle direttive anticipate. A ben vedere, sembra deporre in tal senso il combinato disposto degli artt. 404 e 408 c.c., che, facendo generico riferimento alla necessità di provvedere agli “interessi” del soggetto, consente di ricomprendervi anche quelli di indole non patrimoniale21, tra i quali, in particolar modo, la cura della persona. Nella stessa direzione si colloca il dettato dell’art. 12, il quale dispone che il giudice possa convocare l’amministratore di sostegno in ogni momento per dare istruzioni inerenti agli interessi anche solo morali del beneficiario. D’altro canto, anche i giudici sembrano orientati ad attribuire rilevanza ai compiti di cura della persona22.  Al riguardo occorre tuttavia rilevare come la possibilità che l’amministratore di sostegno presti il consenso al trattamento sanitario in nome e per conto del beneficiario sia al centro di un vivace dibattito giurisprudenziale. Infatti, secondo un orientamento, per vero minoritario, l’amministratore non può in alcun modo sostituirsi validamente al beneficiario, in quanto il principio di autodeterminazione sarebbe suscettibile di deroga solo nei casi di totale incapacità della persona, ossia di interdizione23. La giurisprudenza maggioritaria, al contrario, ammette che l’amministratore di sostegno sia legittimato a esprimere o rifiutare il consenso al trattamento sanitario in nome e per conto del beneficiario, qualora egli non sia in grado di effettuare una scelta responsabile; tale affermazione si giustifica in virtù della funzione di cura della persona che le norme attribuiscono all’amministratore di sostegno, cosicché egli, al pari del tutore dell’interdetto, può sostituire il soggetto da “curare” e da “proteggere”24.

Alla luce delle argomentazioni addotte, pare corretto aderire a quest’ultima tesi, concludendo nel senso che l’oggetto dell’amministrazione di sostegno possa comprendere anche decisioni in ordine ai trattamenti sanitari, all’alloggio, all’alimentazione, all’igiene e simili25 e che conseguentemente possa esservi corrispondenza tra l’oggetto dell’amministrazione di sostegno e quello del testamento biologico.

Tutto ciò osservato, occorre ancora verificare quale vincolatività abbiano le direttive impartire dall’interessato sia nei confronti del giudice, che nei confronti dell’amministratore.  Si noti come l’art. 408, c. 3 c.c. vincoli il giudice a nominare, salvo casi eccezionali, amministratore di sostegno la persona indicata dall’interessato; la norma, invero, non opera alcun riferimento specifico alle eventuali direttive contenute nell’atto di designazione, tanto che, nel silenzio del legislatore, è ragionevole concludere che tali disposizioni non siano vincolanti per il giudice. Egli ha tuttavia la facoltà di recepire nel decreto le statuizioni del designante in ordine alle modalità di svolgimento dell’attività di amministratore, le quali, per ciò stesso, non potranno essere disattese.

È tuttavia necessario interrogarsi circa la vincolatività di quelle direttive che, pur contenute nell’atto di designazione, non siano poi state recepite nel decreto di nomina; ciò al fine di verificare se esse assumano rilevanza nell’ambito dell’attività dell’amministratore.

Viene a riguardo in considerazione la previsione contenuta nell’art. 410 c.c., compendiante il dovere dell’amministratore di tener conto, nello svolgimento dei suoi compiti, dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario. Si tratta di una disposizione innovativa, dalla quale emerge inequivocabile l’intento del legislatore di porre la persona umana al centro della misura di protezione26. Come è stato correttamente affermato, la norma in esame acquista una diversa portata precettiva a seconda della capacità cognitiva e volitiva residua del beneficiario; tanto che, laddove il soggetto si trovasse in una condizione di totale incapacità (stato vegetativo permanente, coma, o altro) l’amministratore non sarebbe di fatto tenuto a conformare la propria attività alle aspirazioni del beneficiario27.

Qualora poi quest’ultimo, attualmente privo di ogni capacità di comunicare con il mondo esterno e dunque di partecipare alle decisioni che lo riguardano, avesse predisposto nell’atto di designazione indicazioni circa lo svolgimento dell’attività di amministrazione, esse costituirebbero la fonte primaria cui attingere informazioni circa le aspirazioni del soggetto sottoposto alla misura di protezione. Con specifico riguardo alla vincolatività, le linee-guida contenute nell’atto di designazione acquisterebbero così la medesima rilevanza delle necessità e aspirazioni manifestate dal beneficiario nel corso dell’amministrazione.  Questa tesi è confermata da quanto previsto nel secondo comma della norma citata, la quale prevede che “ in caso di (...) negligenza nel perseguire l’interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste del beneficiario, questi, il pubblico ministero o gli altri soggetti di cui all’art. 406 c.c. possono ricorrere al giudice tutelare, che adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti”.

Il rimedio previsto dalla norma ben può estendersi anche al caso in cui la volontà del soggetto sia contenuta in un atto separato, cosicché la negligenza dell’amministratore nel perseguire le richieste ivi contenute avrebbe come conseguenza la facoltà per il giudice di intervenire con i provvedimenti che ritiene più opportuni, eventualmente anche sostituendo l’amministratore in carica.

In definitiva, l’analisi fin qui svolta mette in luce le notevoli sinergie esistenti tra amministrazione di sostegno e direttive anticipate; non appare quindi azzardato affermare che il recente istituto di protezione costituisca uno strumento idoneo a incaricare una persona di fiducia dell’attuazione della propria volontà – con particolare riguardo agli aspetti di cura della persona – in previsione di un’eventuale e futura incapacità.

 

 

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Il silenzio della legge e il testamento di vita

di Diana Vincenti Amato

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Alcuni anni fa, ad Aspen, durante un seminario dedicato al consenso del paziente ai trattamenti sanitari, fu presentato un video sconvolgente; tanto sconvolgente che gli organizzatori invitarono ad allontanarsi le persone sofferenti di cuore o estremamente emotive nel timore che la visione potesse danneggiarle.

Il video presentava una serie di trattamenti cui era stato sottoposto un giovane uomo ustionato gravemente da non so quale acido: il corpo nudo, completamente lacerato, veniva immerso in una vasca, manovrato e trattato come una cosa, tra sofferenze indicibili. Quell’uomo chiedeva disperatamente di essere lasciato morire. Sulla considerazione che il dolore gli aveva fatto perdere la capacità di decidere, e nell’incertezza della madre a decidere per lui, le cure continuarono. Il video si spostava poi di alcuni anni, e raccontava come quel paziente, pur rimasto cieco e paraplegico, fosse riuscito a “rifarsi una vita”, e anzi come l’esperienza subita lo avesse spinto a studiare legge e a divenire avvocato. Ce lo mostrava poi, ancora sfigurato, e lo faceva intervenire direttamente sul suo caso. Ebbene, quell’uomo, quell’avvocato, affermava che ciò che era stato fatto di lui, le cure che aveva dovuto subire contro la sua volontà, erano state un inaccettabile abuso, un’offesa irreparabile alla sua dignità; che nello strazio del suo corpo c’era una sorta di degradante indecenza; che se anche allora avesse potuto conoscere il suo futuro avrebbe detto “no,let me alone”.

Perché racconto questa storia a premessa di alcune considerazioni sul testamento di vita? La racconto, come è intuibile, perché coglie alcuni dei nodi più spesso, e assai spesso confusamente, dibattuti: come accertare la “vera” volontà del paziente quando, pur non trovandosi in stato di incoscienza, è tuttavia in condizioni fisiche e psicologiche tali da ritenere che altra sarebbe la sua volontà in condizioni diverse? Quale peso dare alla volontà, espressa al suo posto, o in conflitto con la sua, dai parenti più stretti? Esiste uno standard al quale fare riferimento per valutare la “ragionevolezza” di certe scelte, sia in ordine al tipo di intervento terapeutico che si è disposti ad affrontare, sia in ordine alla “qualità della vita” che si è disposti ad accettare?

Inizio da quest’ultima domanda. La persona di cui al caso riferito non lamentava la qualità della vita cui lo si era riportato, ma piuttosto il prezzo pagato, in sofferenza e dignità, per esservi riportato; altri, e molti di noi ne hanno purtroppo esperienza da persone vicine, preferiscono lasciare che la malattia faccia il suo corso per non subire amputazioni o menomazioni che, a loro giudizio, renderebbero la loro vita non meritevole di esser vissuta; altri, al contrario, pensano che ogni vita, anche la più limitata e sofferente, debba essere vissuta, e per conservarla sono disponibili a qualsiasi trattamento. Vi sono dall’altro lato i parenti, e lascio qui da parte ogni ipotesi di conflitto, il cui amore si può esprimere sia attraverso un attaccamento al corpo del paziente tale da richiedere che venga mantenuto in vita, quali che siano le sofferenze che debba patire o nonostante l’irreversibilità dello stato vegetativo in cui si trova, sia invece attraverso la pietà per quella sofferenza, per quel corpo bloccato che chiedono venga liberato con la sospensione delle cure. La riposta alla domanda se vi sia uno standard è dunque sicuramente no, ed è l’unica risposta che può salvaguardare il principio del consenso del paziente      (ovvero, ma di questo si dirà meglio in seguito, di chi è chiamato a consentire in suo luogo). È allora alla formazione e all’accertamento del consenso che si deve aver riguardo.

La formazione del consenso, come è indiscusso e indiscutibile, richiede informazione sui dati sanitari del paziente, sulla diagnosi, sulla prognosi, sui vantaggi e sui rischi delle procedure diagnostiche e terapeutiche prospettate, sulle possibili alternative, sulle conseguenze del rifiuto del trattamento1; richiede altresì informazione sulla possibile evoluzione della malattia, e sulle svolte che nel corso della terapia possono determinarsi, ponendo dinanzi a scelte ulteriori. Quando si parla di testamento biologico, testamento di vita, dichiarazioni anticipate di trattamento si ha spesso riguardo agli sviluppi di una malattia già in atto; lo stesso testamento, però, potrà anche prefigurare eventi (malattie, incidenti) temuti o semplicemente ipotizzati e in tal caso l’informazione sarà quella generica che ciascuno di noi può ricavare da letture, notizie, esperienze altrui. Nel primo caso si avrà un testamento “mirato”, nel secondo un testamento che indica alcuni limiti invalicabili al trattamento (no alle trasfusioni di sangue, no all’amputazione di un arto, no a trattamenti chimici o radiologici che comportino la cecità o eliminino la capacità sessuale e riproduttiva, no all’interruzione della gravidanza per salvare la vita della madre, no a una sedazione troppo prolungata, no a una sopravvivenza che dipenda esclusivamente dall’essere attaccati a una macchina).

Consenso anticipato o rifiuto anticipato di cure, sempre reversibili, entrerebbero in gioco, ovviamente, solo quando l’interessato si trovi nell’incapacità di esprimere la sua volontà, così come solo in questo caso potrebbe essere chiamata a esprimersi la persona cui il testatore abbia affidato il compito di decidere per lui, o uno dei parenti2. Ma cosa significa incapacità di decidere?

Nei disegni di legge ricordati nelle note che precedono si parla di incapacità di intendere e di volere o di incapacità naturale, ed è chiaro che non si ha presente soltanto il caso del malato che si trovi in stato di incoscienza irreversibile o non reversibile nei tempi necessari all’intervento, ma anche quello di un malato sveglio, ma apparentemente confuso, spaventato, contraddittorio; si prevede infatti che ad accertare quella incapacità sia un collegio di tre medici (un neurologo, uno psichiatra, e uno specialista della patologia da cui il malato sia affetto), il che non sembrerebbe necessario quando il paziente sia in coma. La capacità, o meglio la incapacità di intendere e volere, non è però capacità o incapacità in ordine a una serie ipotetica di atti, ma è capacità o incapacità riguardo alla specifica decisione che è stata presa o che deve sul momento essere presa. Nel caso del consenso o del rifiuto del trattamento si tratta dunque di valutare se il paziente comprenda effettivamente qual è il suo stato attuale di salute, quale la terapia proposta e quali le terapie alternative, la loro invasività, le sofferenze, i rischi e gli effetti collaterali di ciascuna di quelle, le probabilità di un esito positivo; in altre parole, si tratta di capire se sia in grado di dare un “consenso informato”. E qui si impone una prima osservazione: la valutazione chiaramente va fatta al momento in cui le informazioni vengono fornite e proprio per questo dovrebbe essere affidata al medico che le sta fornendo, possibilmente al medico di fiducia, spesso chiamato, del resto, a “tradurre” al paziente le risposte e le proposte, a volte troppo tecniche e oscure, fornite dallo specialista.

Ritengo infatti che presupposto essenziale della libertà della scelta sia il rapporto di fiducia, l’empatia che si è creata tra medico e paziente, e che se è vero che sofferenza, paura di morire e paura di soffrire, stanchezza della vita, paura per una vita che si prospetta assai diversa e peggiore di quella precedente, preoccupazione per i propri cari, sono tutti elementi che possono incidere sulle determinazioni del malato, è anche vero che non sempre, e forse quasi mai, quelle paure si traducono in una incapacità di intendere e di volere (come, a mio parere erroneamente, si ritenne nel caso raccontato all’inizio).  Solo il medico con cui si è instaurato un simile rapporto – e non un’equipe di estranei, pur altamente qualificati – sarà in grado di sciogliere quelle paure o quantomeno il dilemma della capacità o incapacità del paziente.

Il testamento di vita – e ritorno dunque all’occasione di queste considerazioni – che il paziente stesso abbia rilasciato prima della malattia o delle sue complicanze potrebbe essere risolutivo quando vi sia una concordanza tra quanto affermato allora e quanto indicato al momento critico della scelta. Come dovrebbe esserlo e a maggior ragione, quando sia certa l’incapacità attuale del soggetto.

Occorre però che siano chiari alcuni punti. Il testamento di cui si discute, così come i dubbi sulla capacità del paziente al momento della decisione, vengono in evidenza o assumono particolare rilievo solo di fronte a quello che in modo onnicomprensivo viene definito “rifiuto di trattamento”, o di fronte alla richiesta, allo stato non esaudibile, della somministrazione di una qualche sostanza che induca a una morte rapida3.

In una società dove si riconosce a tutti il diritto alla salute e dove domina un’etica, non solo medica, che giustamente privilegia la salvaguardia della vita, quale ne sia la qualità, il problema di non intraprendere o di sospendere le cure a un paziente in stato di incoscienza o a un paziente che a quelle cure consente, ma della cui capacità si dubita, si dovrebbe porre solo quando altri pretendano di decidere per lui, avanzando un rifiuto (e si tratterebbe di vedere, e ne accenneremo in seguito, con quale valore).

Parlare di testamento di vita, o come altro lo si voglia chiamare, ha dunque un senso solo sulla premessa di un “diritto” negativo a non curarsi, che è poi quello cui si devono i numerosi richiami legislativi al “consenso” del paziente. Ora, mentre non vi è dubbio che quel diritto vi sia, ed è anzi un diritto costituzionalmente protetto, poiché “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”(art. 32, c. 2 Cost.), qualche dubbio evidentemente permane sulla validità di un “dissenso” anticipato, se è vero che, a differenza di altri Paesi europei (Danimarca, Germania, Olanda, Belgio, alcuni cantoni svizzeri), l’Italia non ha ancora una legge che riconosca a quel dissenso un qualche valore giuridico. E ciò rimane vero nonostante nel 2001 sia stata ratificata la Convenzione di Oviedo del 1996, per la quale “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico saranno tenuti in considerazione”, e nonostante il Codice di deontologia medica del 1998, all’art. 34, disponga che “il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”.

È giustificato questo silenzio legislativo, quando un riconoscimento esplicito sarebbe di grande aiuto? Perché si dà valore alla volontà manifestata al momento in cui l’esigenza si pone e non lo si riconosce a quella manifestata in precedenza?

Mi sembra che l’unica risposta che si potrebbe dare – considerata la naturale revocabilità delle disposizioni anticipate – è che al presentarsi di quella esigenza il paziente avrebbe potuto cambiare idea, ma non può farlo perché non più in grado di decidere. Ma è proprio questa la finalità prima del testamento di vita, come del resto del testamento in cui si dispone del proprio patrimonio: decidere quando si è ancora in tempo, evitare che altri (la legge, il medico, i parenti) decidano per noi, quando non anche impedire che una sopravvenuta grave debolezza fisica e psichica induca a cancellare la coerenza della propria vita e la razionalità delle proprie scelte. Non riconoscerne la forza vincolante, attribuendo questa forza solo al rifiuto espresso al momento in cui il trattamento andrebbe applicato dal paziente capace, equivarrebbe a ritenere che, perduta quella capacità, la persona non sia più tale e quindi cadano nel nulla le manifestazioni già espresse della sua volontà. A me sembra che questa rottura nella continuità della vita sia contraria al rispetto della persona, e ritengo che sia già sufficiente il dettato costituzionale sopra citato a impedire che si intervenga quando sia chiaramente provata una volontà contraria precedentemente espressa.

Ho parlato di una “comprovata volontà contraria” precedentemente espressa. L’assenza di un riconoscimento legislativo esplicito, pur nella inequivocabilità del dettato costituzionale, rende ancora assai poco frequente, da noi, il ricorso a disposizioni anticipate circa la propria salute. È vero che in famiglia, tra amici, di fronte a fatti che l’esperienza o la cronaca ci presentano, capita di esprimersi, e in modo non superficiale, circa l’atteggiamento che terremmo in circostanze analoghe; ed è vero che chi poi venga posto di fronte alla propria malattia e alla sua possibile evoluzione cerca spesso di coinvolgere le persone che gli stanno più vicine, e lo stesso medico, nei suoi timori per il futuro, fino a chiedere che, giunto il momento, lo si aiuti a morire (sospendendo le cure, staccando la spina, combattendo il dolore con ogni mezzo). Certo però è difficile provare queste dichiarazioni, ed è ancor più difficile che ad esse venga riconosciuto valore decisivo.

La prassi attuale è che, in caso di incapacità dell’interessato, siano i parenti più prossimi a consentire al trattamento.

Questa prassi però ha senso solo se si fonda sulla presunzione che essi meglio di ogni altro conoscono e vogliono rispettare quella che sarebbe stata la sua volontà4. E infatti il loro obbligo di cura5, cui tradizionalmente ci si richiama, non può non trovare il limite già ricordato del rispetto della persona. Che poi questo non accada nella pratica, che all’interesse del paziente si sovrapponga un attaccamento egoistico, o al contrario la volontà egoistica di liberarsene (di liberarsi, ad esempio, di quell’angoscia senza fine che procura il protrarsi dello stato di coma di una persona cara) è un rischio che si corre, e che sarà evitato quanto più puntuale, attenta e responsabile sarà l’informazione medica.

Che, in previsione di una sopraggiunta incapacità, sia consentito affidare la scelte relative alla propria salute a una persona di fiducia, come proposto nei già ricordati disegni di legge, sembra dunque una soluzione auspicabile: da un lato infatti rende ben chiaro che si tratta di scelte da fare nell’interesse e nel rispetto della personalità del paziente; dall’altro riconosce che non sempre e non necessariamente le persone più adatte a svolgere questa funzione sono il coniuge, i genitori, i figli, che di fatto possono essersi allontanati nel tempo o possono essere troppo fragili per una decisione sempre molto carica emotivamente. Va da sé che anche nel caso in cui sia un terzo fiduciario chiamato a decidere, la partecipazione del medico attraverso una informazione chiara e responsabile sarà essenziale per orientarne le scelte.

Insisto sulla partecipazione e responsabilità del medico per varie ragioni. La prima è che troppo spesso si ha la sensazione che il consenso di persone diverse dal paziente, in genere dei parenti più stretti, sia richiesto non tanto per tutelare l’interesse di quest’ultimo, quanto per garantire il medico da azioni penali e di responsabilità civile da costoro promosse in casi di insuccesso. Se il consenso del paziente che sia vigile è indispensabile, configurandosi altrimenti il trattamento, anche il meno invasivo e il più riuscito, quale violenza sulla persona, non potrebbe parlarsi di violenza, a mio giudizio, per il trattamento imposto contro la volontà dei parenti; sempre che non siano in grado di provare, come ho detto sopra, che il loro rifiuto è dovuto al rispetto della volontà precedentemente espressa dal malato. Se così è, allora l’unica misura della legittimità dell’intervento – in assenza, ripeto, di disposizioni anticipate è lo scopo per cui viene intrapreso (la tutela della salute), la sua idoneità e la correttezza tecnica della sua applicazione; tutti elementi che riguardano esclusivamente il medico che è intervenuto, non certo i parenti che hanno consentito, i quali anzi, nonostante il consenso, potrebbero agire per malpractice.  La seconda ragione è che anche nella prospettiva del riconoscimento del valore vincolante delle decisioni prese, in sostituzione del paziente incapace, dalla persona da lui in precedenza designata, è certo che questa potrà assicurarne il rispetto della personalità e delle idee solo sulla base di una esatta conoscenza dello stato e dello stadio in cui il paziente si trova e della natura e appropriatezza delle misure suggerite o intraprese.

La terza e conclusiva ragione è che, se da un lato non si riconosce alla classe medica quella correttezza ed eticità che deve orientarne la professione, e se dall’altro i medici non accettano l’idea che ogni individuo è unico, con una sua diversa visione della vita e una diversa tolleranza delle sofferenze e delle menomazioni fisiche e psichiche, e se non accettano l’idea che curare non è solo risolvere la malattia e allungare la vita, ma anche rendere questa vita accettabile, lenire il dolore, non protrarre inutilmente il processo del morire, allora permarrà sempre il dubbio, e la possibilità, che una  manipolazione anche non grande della reale situazione consenta di non attenersi alla volontà precedentemente espressa, o orienti in modo distorto le scelte della persona designata6.

È proprio da un intervento legislativo che esplicitamente riconosca la natura vincolante del testamento di vita, che ci si possono attendere trasformazioni non indifferenti nel rapporto medico-paziente. Alla classe medica, o meglio a quella sua parte che ancora stenta a vedere nel malato un interlocutore attivo nel processo di cura, e si trincera dietro “protocolli medici”, quasi si trattasse di regole ingegneristiche da applicare a materiale inerte, insegnerebbe che sempre il paziente va ascoltato, e non solo per farsi descrivere i sintomi. A noi, potenziali pazienti, toglierebbe quell’atteggiamento di umile sottomissione che spesso ci coglie dinanzi a chi “ne sa più di noi”, ma non per questo può decidere per noi. Da un rapporto più equilibrato nascerebbe quella maggiore fiducia che può rendere meno traumatici per il malato anche la diagnosi più infausta e i trattamenti più penosi, e che allontana dal medico lo spettro, oggi ragionevole, di azioni legali contro di lui.

Perché questi risultati possano essere ottenuti è però necessario, a mio parere, un intervento legislativo “leggero” e senza paludamenti. Non così è, ad esempio, il testo Tomassini accolto dalla Commissione Sanità del Senato, quando, per il testamento di vita e per l’indicazione del sostituto richiede l’atto notarile e la sua annotazione in un registro nazionale istituito presso il Consiglio Nazionale del Notariato. Una formalizzazione, ritengo, che non solo allontana le persone, specie le più semplici, dall’idea di poter esser partecipi anche per il futuro, quando le capacità espressive e intellettive saranno scomparse o fortemente scemate, delle decisioni che riguardano la propria salute e la propria vita; ma che potrebbe anche finire per far ritenere irrilevanti scritture o dichiarazioni non formalizzate e ancor più ogni indicazione che possa derivarsi dalla complessiva filosofia della vita del soggetto ora incapace.

Il testamento di vita, quando vi sia, e dovrebbe bastare a farlo esistere una scrittura privata che ciascuno porta con sé7, è lo strumento più facile e sicuro per rilevare la volontà del paziente ora incapace; questa volontà però andrà comunque ricercata, in assenza di quello, nei suoi comportamenti passati e nelle testimonianze altrui, quando ci si debba confrontare con scelte che comportano future gravi menomazioni fisiche e psichiche, sofferenze strazianti, o la condanna a una vita puramente vegetativa. Solo così si assicura quel rispetto della persona che non è mai in conflitto, ma è parte integrante del rispetto della vita umana.

 

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“Testamento per la vita” e amministrazione di sostegno

di Giovanni Bonilini

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Amministrazione di sostegno e testamento biologico o per la vita

All’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2004, n. 61, che ha profondamente innovato il sistema di protezione delle persone prive d’autonomia, affiancando, ai tradizionali istituti dell’interdizione giudiziale e dell’inabilitazione, l’amministrazione di sostegno, destinata peraltro a “soppiantare”, in definitiva, codesti, tradizionali istituti2, non è mancato chi ha ritenuto di poter ricavare altresì, dalle sue norme, un appoggio al fine di colmare la lacuna relativa al cosiddetto testamento biologico, o per la vita, che invece conosce da tempo, nelle esperienze straniere, una precisa disciplina, sensibile ai valori della persona3.  Si è sostenuto, ad esempio, con riguardo all’impossibilità temporanea, contemplata all’art. 404 c.c., o alla nomina dell’amministratore di sostegno provvisorio, ex art. 405, IV c. c.c., che una persona, alla vigilia di un intervento chirurgico, potrebbe designare un soggetto, affinché assuma decisioni in ambito medico, nel tempo in cui la stessa, verosimilmente, non sarà in grado d’intendere e volere; in tal modo, porrebbe “validamente in essere un testamento biologico, in attesa di una più perfezionata e apposita previsione legislativa”4.  Non è questa la sede per mettere in luce l’improprietà dell’espressione utilizzata, ché, all’evidenza, è del tutto inadeguato esprimersi nel senso di “testamento per la vita”5, sebbene non sfugga l’efficacia dell’ossimoro impiegato. Non può negarsi, però, l’importanza della confezione di un atto, unilaterale inter vivos6, al quale una persona, temendo di perdere, per malattia o intervento chirurgico, la capacità di intendere e volere, affidi, anzitutto, la designazione del soggetto che dovrà prendere le decisioni, nell’ipotesi in cui il designante non fosse in grado di esprimerle, e, inoltre, una serie di direttive di vario genere, quali, ad esempio, quelle concernenti il luogo in cui voglia trascorrere la fase della malattia, l’alimentazione, l’abbigliamento eccetera7.

Trattasi, dunque, di negozio giuridico unilaterale inter vivos, la cui efficacia è differita a un momento successivo, coincidente con il verificarsi di un dato evento, vale a dire il prodursi dello stato d’incapacità psichica8, che, in quanto antecedente alla morte del suo autore, non rende possibile un accostamento, se non di pura assonanza o suggestione, al testamento.  Negozio, dunque, atto a valorizzare appieno la volontà dell’uomo, il quale, in modo consapevole, manifesta, suo tramite, le decisioni inerenti la propria salute, e i rischi connessi a particolari tecniche terapeutiche, intuitivamente efficace, oggi, nei limiti in cui non miri alla realizzazione dell’eutanasia9.  Ciò acquisito, si ritiene che le norme sull’amministrazione di sostegno – si pensi, soprattutto, all’art. 408, I c. c.c., nella parte relativa alla designabilità dell’amministratore di sostegno10 –, consentano oggi, in modo ancor più sicuro, la valorizzazione, quanto meno in attesa di un più organico, necessario intervento normativo, degli auspici espressi dall’uomo, che, successivamente alla consapevole manifestazione dei medesimi, tema di non essere in grado di autodeterminarsi, indi di attuarli direttamente, sicché dispone affinché altri si esprima al posto suo, seguendo, appunto, le direttive, che egli stesso ha dettato al tempo in cui era pienamente capace11. Del resto, in un ordinamento, qual è il nostro, che persiste a essere sordo di fronte al problema di dare piena attuazione, e forza, alla volontà dell’uomo, in un campo che, salvo alcuni limiti ineludibili, non dovrebbe interessare l’ordinamento giuridico, chiamato soltanto a predisporre i mezzi di tutela della volontà congruamente manifestata, non resta, all’interprete, che sfruttare ogni piccolo spazio offertogli dalle norme.

 

Amministrazione di sostegno e trattamenti sanitari.

Si è messo in luce che, nell’ambito dei compiti di cura della persona, che competono all’amministratore di sostegno, la quale, per certi versi, costituisce l’aspetto più significativo del nuovo istituto, che non può essere riguardato soltanto nella prospettiva dell’amministrazione dei beni del beneficiario12, può farsi rientrare la manifestazione di consensi di varia natura (ad esempio, trattamenti medici, trattamenti dei dati personali e, forse, anche consenso all’uso dell’immagine o di altri attributi della personalità)13. Si reputa, invece, che meritino distinta considerazione, gli atti inerenti il diritto di famiglia14, sebbene non si manchi di segnalare la necessità di non impedire al disabile di compiere atti inerenti i rapporti di famiglia, in quanto espressione di diritti fondamentali della personalità15.  A mio avviso, il nuovo sistema di norme avrebbe potuto meglio considerare gli interrogativi sopra affacciati; nondimeno, mi pare consenta di pervenire a una soluzione, se non pienamente soddisfacente, apprezzabile, sempre che il giudice tutelare applichi le norme con prudenza e, soprattutto, nel rispetto dei diritti fondamentali16.

Recenti casi, balzati, con prepotenza, agli onori della stampa e della televisione, rendono sicura l’attualità dell’interrogativo circa la scelta di rifiutare un dato trattamento sanitario e, di conseguenza, per quanto qui interessa, circa i confini, entro i quali può trovare applicazione l’amministrazione di sostegno.

Non si dovrebbe avere incertezza sul fatto che si è qui di fronte a scelte che non dovrebbero neppure lontanamente far porre la domanda, se altri possa decidere in luogo del diretto interessato, e, men che meno, se altri possa sovrapporre la propria decisione a quella liberamente manifestata dall’interessato, vuoi in prossimità del trattamento, vuoi in previsione dello stesso, com’è stato, peraltro, in un caso recente17.

All’evidenza, è grossolana l’idea, secondo cui la persona, la quale non acconsenta a un dato trattamento sanitario, senza il quale è pressoché certa la sua morte, sia, per ciò stesso, priva delle facoltà intellettive, nel qual caso è possibile il ricorso all’amministrazione di sostegno o, addirittura, la dichiarazione d’interdizione. Il rifiuto del trattamento sanitario, pertanto, non si può ritenere capace di innestare la procedura d’interdizione o di amministrazione di sostegno18. In definitiva, è di assoluta gravità, che si pretenda di sovrapporre la decisione di un’altra persona a quella che ha deciso altrimenti: chi rifiuti l’amputazione di un arto, preferendo lasciarsi morire, non può vedersi raggirato all’attivazione di uno strumento che legittimi altri a decidere al posto suo, ottenendosi un consenso al trattamento da chi sia stato nominato tutore o amministratore di sostegno. Ben si è detto come sia discutibile che il tutore dell’interdetto giudiziale esprima il consenso in luogo di quest’ultimo; a maggior ragione, se ne sia affidato il compito a un amministratore di sostegno19. Del resto, come ben è stato ricordato di recente, escludere la persona dalla possibilità di scegliere riguardo al dolore equivale a un’espropriazione totale e, molto spesso, brutale: “Eticamente è oscurantista e paternalistica, giuridicamente è un insulto al valore della personalità”20.

La sollecitazione, da più parti espressa, che ciascuno debba vedere rispettate le proprie scelte, circa l’intervento sul proprio corpo; l’invocazione, quanto meno, che sia sufficiente la consapevolezza della decisione palesata nel momento in cui la persona la assume – non già, quindi, la capacità d’agire – e, a maggior ragione, il rispetto della decisione preventivamente manifestata, nel tempo in cui quella consapevolezza era pienamente presente, non dovrebbero neppure essere oggetto di dubbio, tanto attengono all’ineludibilità delle scelte fondamentali della vita.

Si deve rilevare, nondimeno, come, nelle prime applicazioni della normativa sull’amministrazione di sostegno, si sia assistito alla decisione, secondo la quale può essere designato un amministratore di sostegno a una persona impossibilitata a manifestare il consenso al trattamento medico, attribuendogli il potere di esprimere tale consenso in suo nome21.

Al riguardo, ben si può riconoscere che l’amministratore di sostegno sia stato nominato ad actum22, e la decisione si ponga in evidente contrasto con norme e principi, in virtù dei quali i trattamenti sanitari sono volontari, e occorre tener conto, anche nel caso in cui la persona non sia in grado di esprimere la propria volontà, di quanto precedentemente, e informalmente, manifestato dalla stessa, quindi non si giustifichi affatto, con la pretesa di soccorrerla, la sovrapposizione, alla sua volontà, di quella di altro soggetto23. Non si potrebbe, peraltro, opinare nel senso, che il sistema normativo sull’amministrazione di sostegno mette in luce come le funzioni, che l’amministratore di sostegno è chiamato ad assolvere, non sono predefinite, ché spetta al giudice individuarle, caso per caso, a ragione delle esigenze del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, dato che è proprio questo stesso sistema a rendere sicuro che non si può erodere, più di quanto non sia necessario, la sfera di autonomia del beneficiario e, in ogni caso, che il nuovo istituto è stato concepito al fine di prestare una migliore, doverosa protezione ai diritti dell’uomo, che impone il rispetto delle scelte personali24.

Mi pare si possa affermare, peraltro, che è, quanto meno, dubbio che il nuovo sistema mantenga la possibilità di agire anche contro la volontà del beneficiario stesso, allorché si tratti di proteggerlo da possibili conseguenze dannose di suoi comportamenti, altresì in campo sanitario25, specie se si consideri che l’art. 410 c.c. esalta il rispetto delle aspirazioni del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, e tutela il suo diritto al dissenso26.

 

Impossibilità temporanea, o parziale, e attivazione dell’amministrazione di sostegno. Conclusioni

Giova nuovamente rammentare che, ai sensi dell’art. 404 c.c., il giudice tutelare può procedere alla nomina di un amministratore di sostegno, altresì al fine di assistere chi si trovi nell’impossibilità temporanea, o parziale, di provvedere ai propri interessi. Secondo una dottrina, deve essere considerata parziale l’impossibilità che si risolva “in un’inettitudine non radicale della persona alla cura dei propri interessi “; temporanea, invece, è l’inattitudine che costituisca l’effetto di una malattia o menomazione, di cui possa diagnosticarsi la guarigione o il superamento, e che appaia non avere, perciò, carattere duraturo27.

Non si è mancato di dare concretezza alla fattispecie, richiamando anche il caso in cui l’interessato sia alla vigilia di un intervento chirurgico, in ordine al quale si reputa giustificata la nomina di un amministratore di sostegno, che assuma, altresì, decisioni in ambito medico, nel tempo in cui quel soggetto non sarà in grado intendere e volere28.

A mio avviso, la nomina dell’amministratore di sostegno non può essere immiserita all’adozione di decisioni in campo medico, o, ancor peggio, quale penoso escamotage diretto ad aggirare, in definitiva, la scelta, consapevolmente espressa dall’interessato, di rifiuto di un dato trattamento medico-chirurgico, confidando, appunto, nel positivo consenso manifestato, in luogo dell’interessato, dall’amministratore di sostegno.

La sua attivazione, dunque, reputo si riveli, nell’ipotesi prospettata, poco aderente ai presupposti di legge. Per meglio dire: può ben essere che si riveli opportuna al fine della gestione dei beni dell’infermo, per tutta la durata in cui lo stesso sarà nell’impossibilità di attendervi; deve escludersi, nondimeno, la correttezza della soluzione proposta da chi reputa che l’amministratore di sostegno possa altresì manifestare, in sostituzione del diretto interessato, un incondizionato consenso al trattamento sanitario del medesimo, financo in (assenza o, addirittura, in) contrasto alle scelte dallo stesso palesate nel tempo in cui era in grado di manifestarle consapevolmente.  In definitiva, si può registrare, nella materia in esame, la permanente insufficienza della normativa vigente circa la corretta soluzione, vale a dire la rispettosa osservanza della volontà della persona, nonostante l’entrata in vigore delle nuove norme sull’amministrazione di sostegno. Non si può negare, tuttavia, che le stesse possono prestare qualche soccorso, sebbene, giova ribadirlo, occorra l’esplicita affermazione del principio, che ciascuna persona deve poter confidare nel pieno rispetto delle proprie scelte, altresì riguardo ai trattamenti sanitari più invasivi, là dove non dovesse essere in grado di reiterare personalmente la propria convinzione, fatti salvi, naturalmente, i limiti che il legislatore ritenga di dover fissare, al fine del rispetto dei valori reputati imperanti nel dato momento storico.

Quanto all’utilità delle vigenti norme sull’amministrazione di sostegno, mi pare che la loro utilità possa cogliersi, soprattutto, con riferimento alla possibilità, riconosciuta dall’art. 408 c.c., di designare chi si vuole rivesta l’ufficio di amministratore di sostegno, allorché, appunto, si renda necessaria l’attivazione di codesto istituto di protezione. Designazione dell’amministrazione di sostegno, che, se adeguatamente vestita29, vincola il giudice tutelare, il quale, infatti, può disattenderla, solo in presenza di gravi motivi. Formula, questa, sufficiente a garantire la scelta attuata con l’atto di designazione, ché si impone al giudice di motivare, alla luce di circostanze obbiettive, il provvedimento che non dia seguito alla designazione manifestata dal possibile interessato all’amministrazione di sostegno30.

La possibilità di designare il soggetto che si vuole assista, in qualità di amministratore di sostegno, il beneficiario, quindi la possibilità di confidare sull’assistenza di una persona di propria elezione, costituisce già un primo miglioramento, rispetto alla situazione preesistente alla recente normativa.

Non si dimentichi, inoltre, che, nella misura in cui si ammetta, sebbene con notevoli difficoltà, stante la normativa vigente, la possibilità di arricchire il contenuto dell’atto di designazione, di cui si è detto, pel tramite di “direttive”, che dovranno essere seguite dall’amministrazione di sostegno nello svolgimento del suo ufficio31, si guadagna un ulteriore spazio di autonomia. Non si può dimenticare, infatti, che il possibile interessato all’amministrazione di sostegno potrebbe altresì ricomprendere, fra codeste “direttive”, il proprio volere sulle scelte terapeutiche eccetera. Occorre rammentare, però, che si dubita che le stesse impegnino, giuridicamente, l’amministratore di sostegno, il quale, invero, è soltanto tenuto ad attenersi ai poteri-doveri indicati, anzitutto, nel provvedimento del giudice tutelare che lo destina all’ufficio, e non è punto sicuro che detto giudice riproduca, nel provvedimento, quanto voluto dal designante l’amministratore di sostegno32. Ci si avvede, dunque, che occorre confidare nella sensibilità del giudice tutelare e, nuovamente di fatto, in quella dell’amministratore di sostegno. Ci si avvede, in definitiva, che la soluzione cui si aspira, vale a dire la certezza che le scelte fondamentali di vita della persona siano pienamente attuate, altresì nell’ipotesi in cui la stessa abbia perduto la pienezza della capacità intellettiva e volitiva – nel rispetto, beninteso, dei valori di base dell’ordinamento giuridico dato, contro i quali la persona nulla può –, non si riesce oggi a raggiungerla, agevolmente, pel tramite degli spiragli che pur sembra offrire la normativa sull’amministrazione di sostegno.