SIAMO FRUTTO DEL CASO

di

Telmo Pievani

 
 

Gli articoli che seguono, scritti da alcuni fra i maggiori esperti a livello internazionale, descrivono nuove scoperte scientifiche il cui significato culturale e filosofico non può essere sottovalutato. Si tratta infatti del compimento di una revisione radicale dell’immagine dell’evoluzione umana. Caduto definitivamente il paradigma unilineare che interpretava la nostra storia naturale come una carrellata di stadi di progresso, l’intricato diagramma delle specie ominine che a ritroso collega l’ultimo ramoscello sopravvissuto oggi, cioè Homo sapiens, con l’antenato comune fra noi umani e gli scimpanzé – vissuto in Africa intorno a 6 milioni di anni fa – è composto al momento da almeno venti specie differenti, ciascuna con una propria unicità tassonomica e con un peculiare mosaico di caratteristiche adattative. Non una marcia di avvicinamento all’umanità moderna, dunque, ma un’esuberante esplorazione di possibilità.

Da quando i primi ominini sperimentano soluzioni alternative per sopravvivere in spazi sempre più aperti, a quando intorno a due milioni di anni fa troviamo in Africa una pletora di specie appartenenti addirittura a tre generi diversi (le australopitecine gracili più recenti come Australopithecus sediba, le prime forme del genere Homo e i parantropi robusti), fino a quando in tempi recentissimi, ancora 50 mila anni fa, in Africa ed Eurasia convivono ben cinque forme umane contemporaneamente, la coabitazione di specie diverse è stata la norma. Non siamo mai stati soli, tranne che nelle ultime, poche migliaia di anni.

Ma ora c’è dell’altro. Ciò che accomuna molti degli articoli è la consapevolezza, emersa prepotentemente negli ultimi mesi e anni nella comunità scientifica, del ruolo chiave che hanno giocato le variazioni climatiche e i fattori ecologici su larga scala nel condizionare e letteralmente nel plasmare l’evoluzione umana. L’attenzione era stata rivolta principalmente alle mutazioni genetiche considerate cruciali e ai grandi adattamenti funzionali che ci hanno reso umani (bipedismo, tecnologie litiche, crescita del cervello), e troppo poco sui parametri ambientali contingenti che hanno reso così variegato e imprevedibile l’andamento dell’albero cespuglioso degli ominini. Oggi ci accorgiamo che il potere delle circostanze è stato dominante nella nostra storia naturale e che quindi i fattori primari che ci hanno condotti fin qui furono talvolta indipendenti dalla maggiore efficienza o dalla presunta «superiorità» intrinseca dei «vincitori».

Le scimmie della Rift Valley

Pensiamo al bipedismo, l’innovazione che inizialmente ha separato i primi rappresentanti della nostra famiglia di strani primati di grossa taglia. L’immagine dei nostri antenati che gloriosamente «si alzano in piedi» non ha più alcun senso. Le numerose specie iniziali hanno avuto posture e movimenti differenti, che possiamo rilevare dall’anatomia degli scheletri fossili e dalla forma delle loro articolazioni. Uno dei protagonisti di questi studi, il paleoantropologo Tim White, del quale pubblichiamo qui un contributo, scrisse tempo fa che la diversità delle camminate ancestrali (compresa quella della specie Ardipithecus ramidus da lui scoperta) era così piena di stranezze che, a immaginarla, gli sembrava di essere nel bar intergalattico di Guerre stellari.

Gli scimpanzé percorrono anche lunghi tratti sugli arti inferiori, quando occasionalmente devono trasportare cibo e oggetti, ma le ragioni adattative iniziali dell’essere bipedi andarono oltre il vantaggio offerto dalla liberazione delle mani. L’abbandono dell’andatura quadrupede comporta infatti una riorganizzazione costosa di tutta l’anatomia: rende più instabili, porta ad esporre gli organi vitali, restringe il canale del parto nelle femmine ed è più difficile da apprendere per i cuccioli. Ancora oggi, il nostro corpo non è completamente idoneo alla postura eretta: chi soffre di ernia del disco, di mal di schiena e di logorio delle articolazioni ne sa qualcosa. L’unicità e la sub-ottimalità sono i marchi di fabbrica della nostra evoluzione, non certo la perfezione.

Dobbiamo dunque supporre che la selezione naturale – cieco meccanismo che non vede nel futuro – abbia favorito tale cambiamento a causa di un suo vantaggio sostanziale e immediato. Se siete scimmie antropomorfe africane obbligate a sempre più frequenti spostamenti in radure aperte e infuocate, ridurre la superficie corporea esposta al sole può essere un’ottima idea, qui e ora, così come ergersi in allerta sopra le distese erbose (essendo stati noi prede, e non predatori, per lungo tempo). A partire da circa dieci milioni di anni fa, infatti, la formazione di una barriera geologica lunga seimila chilometri, la Great Rift Valley, ostacolando le perturbazioni atlantiche portò a un progressivo inaridimento dei territori più orientali del continente africano, frammentando la foresta pluviale e poi sostituendola con praterie e savane, cioè spazi aperti attraenti e rischiosi. Qui cominciò la nostra carriera di bipedi.

La locomozione bipede ha avuto poi imprevedibili effetti collaterali che hanno cambiato il corso della nostra evoluzione. Alle scimmie della Rift Valley il bipedismo ha regalato doni preziosi come la corsa sulle lunghe distanze e l’uso libero delle mani. Senza contare che un bipede, all’occorrenza, può comunque nuotare o arrampicarsi su un albero, come sicuramente faceva ancora l’Ardipithecus ramidus annunciato nel 2009 da Tim White. Al costo di qualche acciacco lombare, magari, ma ne è valsa la pena, perché il nostro successo come esploratori planetari trova le sue radici in questa rivoluzione anatomica incompiuta e nei suoi effetti, in ultimo, culturali. E non sarebbe successo alcunché senza la Rift Valley. Dunque, a meno di non ravvisare nella tettonica a placche un disegno intelligente (come qualcuno, scommettiamo, non mancherà di fare), fu questa circostanza geologica esterna a innescare il processo su larga scala che portò all’evoluzione indipendente degli ominini.

Contingenza storica e geografica

Facciamo ora un salto a tempi più recenti. Subito dopo il giro di boa dei due milioni di anni fa, inizia un processo di espansione ramificata che gli evoluzionisti chiamano «radiazione adattativa». In un lasso di tempo che abbraccia decine e centinaia di migliaia di anni, i primi rappresentanti del genere Homo, partiti da una vallata del Corno d’Africa, seguendo coste e vallate fertili si affacciano in Medio Oriente e poi si diramano fino al Pacifico da una parte e all’Europa occidentale dall’altra. Sarà solo la prima di molte diaspore. Come in ogni cambiamento nella distribuzione di animali e di piante nella geografia terrestre, mari, oceani, catene montuose, deserti e ghiacciai diventarono ostacoli da aggirare, barriere che spesso creavano passaggi obbligati nei crocevia del popolamento.

Le contingenze ambientali hanno avuto un ruolo cruciale in tutti i passaggi significativi della storia umana più antica. La conformazione delle terre emerse, le eruzioni vulcaniche, l’instabilità ecologica, le modificazioni del clima, le frammentazioni di habitat – fattori indipendenti dai meriti adattativi di questo o quel ramoscello del nostro albero di famiglia – hanno condizionato gli eventi, come peraltro succede a tutte le specie e come è normale che sia giacché viviamo su un pianeta attivo e imprevedibile.

Dunque dobbiamo la nostra locomozione e molto della nostra dieta al diradarsi della foresta ombreggiata a est della Rift Valley, ma l’influsso delle circostanze si è manifestato anche successivamente: tutte le vicende di rilievo del nostro genere si svolsero nell’instabilità delle oscillazioni climatiche del Pleistocene, con periodi glaciali e interglaciali, innalzamenti e abbassamenti dei livelli dei mari, andirivieni di barriere geografiche, isole che diventavano penisole e viceversa, terre bloccate dai ghiacci, fasce di vegetazione che cambiavano latitudine insieme alle faune di erbivori e carnivori, che noi inseguivamo essendo cacciatori opportunisti (avendo cioè la disgustosa ma redditizia abitudine di approfittare delle carcasse predate da altri).

Gli spostamenti delle popolazioni di Homo dentro e fuori dall’Africa dipesero, in particolare, dall’alternanza di fasi secche e di fasi umide nel Sahara e nel Sahel: quando questi territori erano distese verdi e fertili percorse da corsi d’acqua attiravano gli ominini da sud e da est, mentre nelle fasi di desertificazione li respingevano in tutte le direzioni, anche verso nord e nord-est, creando così un peculiare effetto di pompaggio e di espulsione fuori dall’Africa. Questa dinamica ecologica avrebbe prodotto le molteplici uscite dall’Africa che hanno disseminato specie diverse del genere Homo in tutta l’Eurasia.

L’oscillazione ecologica sahariana è a sua volta dipesa da mutamenti climatici prodotti dai cambiamenti di intensità nel sistema delle correnti oceaniche atlantiche, in particolare dopo la chiusura dell’istmo di Panama. Insomma, siamo figli a tutti gli effetti della dinamica geofisica globale del pianeta Terra. Una coalizione di fattori geologici e climatici a catena, con remote implicazioni connesse all’orbita e alla rotazione della Terra su se stessa, ha concesso la nostra comparsa durante un lungo inverno africano. Altrimenti non saremmo qui, in questo momento, a parlarne. Furono dunque contingenze storiche, cioè singoli eventi dirimenti e imprevedibili a priori, e contingenze geografiche, cioè separazioni di popolazioni dovute a circostanze accidentali prodotte sul territorio dai cicli climatici terrestri, a plasmare ciò che soltanto con molta fantasia possiamo continuare a concepire come un’ascesa inevitabile.

Homo sapiens, il sopravvissuto

Potremmo però insistere nell’ostinazione finalistica, accarezzata dai teologi di successo in missione consolatoria, e ipotizzare che almeno Homo sapiens, solo lui, faccia eccezione. Niente di più improbabile. Ottomila generazioni fa (circa 200 mila anni fa) compaiono i primi Homo sapiens in Africa subsahariana, in una fase di ulteriore inaridimento in concomitanza con la penultima glaciazione quaternaria. È una popolazione circoscritta, che porta novità salienti sia nell’anatomia slanciata e nella capacità cranica, sia soprattutto nell’espressione dei geni che regolano i tempi dello sviluppo. Il prolungamento delle fasi di crescita, che durano di più che in tutte le altre forme di Homo, è stato forse il nostro segreto più importante, perché ha influito sull’espansione e sulla riorganizzazione del cervello, sulle capacità di apprendimento, sull’organizzazione sociale e sul linguaggio. Siamo la specie ominina che resta immatura e giovane più a lungo.

Da una zona forse vicina al sito eritreo di Abdur, dove la presenza di Homo sapiens è attestata 125 mila anni fa, iniziano le dispersioni multiple della nostra specie fuori dall’Africa, seguendo spesso gli stessi tracciati delle precedenti diaspore. Le espansioni di Homo sapiens hanno lasciato una traccia genetica flebile ma significativa. I quasi sette miliardi di esseri umani che abitano oggi il pianeta presentano una variazione genetica molto ridotta e proporzionalmente più bassa mano a mano che ci si allontana geograficamente dal continente africano. Questo dato suggerisce che l’intera popolazione umana sia discesa da un piccolo gruppo iniziale, che conteneva gli antenati di tutti noi e che si stima non superasse le poche migliaia di individui.

Poi questa popolazione pioniera originaria è cresciuta e si è diffusa, irradiando di volta in volta nuovi gruppi fondatori di piccole dimensioni, i quali a partire da 60-50 mila anni fa hanno rapidamente colonizzato prima il Vecchio Mondo e poi per la prima volta anche l’Australia (già 50 mila anni fa, attraversando un braccio di mare) e le Americhe (passando per il continente ora sommerso della Beringia). All’arrivo dei primi Homo sapiens, l’Eurasia era già abitata da altre specie umane, derivanti dalle precedenti ondate di espansione, come Homo neanderthalensis (estinto a Gibilterra intorno a 28 mila anni fa) e il piccolo Homo floresiensis (estinto sull’isola di Flores in Indonesia intorno a 15-12 mila anni fa). Siamo insomma una specie africana geneticamente omogenea e giovane, che fino a poche migliaia di anni fa ha convissuto con altre forme umane. Mentre tutto ciò accadeva, le contingenze ambientali continuarono a deviare, più volte, la traiettoria della storia. Alcuni dati molecolari attestano un calo della popolazione di Homo sapiens intorno a 70-75 mila anni fa, in concomitanza con il crollo delle temperature globali dovuto all’«inverno vulcanico» provocato dalla catastrofica eruzione del Toba, sull’isola di Sumatra: centinaia di chilometri cubi di magma eruttato, con l’immissione in atmosfera (verso l’Oceano Indiano) di 800 chilometri cubi di cenere.

Fu un disastro ecologico globale, in seguito al quale noi ci saremmo infilati in quello che gli esperti chiamano un «collo di bottiglia» evoluzionistico: una drastica riduzione della popolazione, al limite della scomparsa, e poi una ripartenza dai pochi sopravvissuti al cataclisma. La variazione genetica ridotta degli esseri umani attuali porta a pensare quindi che non solo il gruppo fondatore iniziale sia stato piuttosto piccolo, ma che in seguito la popolazione umana abbia attraversato drammatiche riduzioni a causa di crisi ambientali. Altri studiosi pensano che il (o un) collo di bottiglia si sia verificato già prima, in Africa, nel lungo periodo glaciale che va da 190 a 123 mila anni fa. Per il gioco dei venti e delle precipitazioni, le glaciazioni portano infatti aridità in Africa e forse gli sparuti Homo sapiens rimasti hanno trovato rifugio alla desertificazione nelle confortevoli coste meridionali della regione del Capo, in Sudafrica, all’estremità meridionale della Rift Valley. Qualunque cosa sia successa, i dati molecolari confermano che in almeno una fase della nostra storia evolutiva ci siamo ritrovati davvero in pochi, sull’orlo dell’estinzione, e che ce l’abbiamo fatta per il rotto della cuffia.

Che ironia, se fosse andata diversamente: ora non ci sarebbe una specie umana autoproclamatasi «sapiens» e convinta di essere l’apice dell’evoluzione, il tronfio prodotto di una grande attesa finalistica. Nelle Operette morali, Giacomo Leopardi immagina il dialogo post-apocalittico tra uno gnomo e un folletto. Lo gnomo commenta: «Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitasse, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli».

Nuove domande appassionanti, e dibattiti da archiviare

Nell’anno in cui sentiremo ogni tipo di stupidaggine superstiziosa sulla fine del mondo, ben pubblicizzata in prima serata, è importante ricordare che l’apocalisse (degli altri) c’è già stata più volte, e che noi non saremmo qui senza la fine del mondo degli altri. Il ruolo dei fattori ecologici contingenti si è manifestato infatti anche molto prima che iniziasse la nostra storia di ominini. La quinta fra le maggiori estinzioni di massa del passato (fra Cretaceo e Terziario, 65 milioni di anni fa) liberò le nicchie ecologiche indispensabili per la successiva diversificazione dei mammiferi, primati compresi. Ma i dinosauri stessi, vittime per la quasi totalità dell’asteroide, dovevano una parte delle loro fortune pregresse a non meno catastrofiche estinzioni di massa più remote, come quella alla fine del Triassico, 200 milioni di anni fa circa, che si era portata via i loro maggiori competitori, i crurotarsi. Alla fine del Permiano, 51 milioni di anni prima, un’altra colossale estinzione di massa provocata da enormi eruzioni vulcaniche aveva spazzato via il 90 per cento degli organismi marini e il 70 per cento di quelli terrestri. Un’ecatombe micidiale, a suo modo «democratica», un’improvvisa potatura radicale dell’albero della vita che ha risparmiato soltanto un decimo dei rametti. Secondo uno dei massimi esperti in materia, il paleontologo Michael J. Benton, quella volta c’è mancato poco che la vita scomparisse del tutto. Senza quell’asteroide e senza quei fiumi di basalto fuso, la storia della vita avrebbe preso tutt’altra direzione.

È importante sottolineare che queste evidenze si basano su un raffinamento eccezionale delle metodologie di datazione e di indagine, resosi possibile solo negli ultimi anni. Come notano diversi autori dei saggi qui presentati, oggi esistono tecniche di studio e di misurazione dell’antichità dei reperti, da usare sempre in combinazione le une con le altre, che non hanno precedenti nella storia della disciplina. Datazioni relative e assolute – di tipo archeologico, di tipo geologico e ottenute attraverso nuove tecnologie di fisica nucleare applicate alla geocronologia – si uniscono alle comparazioni morfologiche e ai sempre più abbondanti dati provenienti dalle analisi genetiche. Non era mai successo che si potesse estrarre il dna antico da fossili di decine di migliaia di anni fa, o che una tomografia potesse sezionare denti e ossa scovando dettagli infinitesimali mai osservati prima. Ne risulta un quadro coerente di prove convergenti che non è mai stato così robusto, unitamente a modelli di ricostruzione delle parentele evolutive sempre più precisi. Chi si compiace di non riconoscere ancora alla biologia evoluzionistica, e all’evoluzione umana in particolare, uno statuto di scientificità più che invidiabile dimostra di non essere al corrente di quanto sta avvenendo sul campo.

La cautela metodologica invocata da alcuni autori qui, come Bernard Wood e Lee Berger, nell’inferire con troppa sicurezza rapporti di discendenza o nel sostenere di aver trovato «l’antenato comune» fondamentale (o ancor peggio l’«anello mancante»), è dovuta proprio all’inedita articolazione del quadro empirico emerso in questi anni e alla valanga di nuove informazioni in attesa di una corretta interpretazione. Non è dunque un segno di debolezza o di incertezza come taluni vorrebbero far intendere, ma al contrario di accresciuta solidità scientifica. Se ne facciano una ragione i negazionisti imperterriti, i perplessi d’ordinanza, quelli ancora ossessionati dagli «errori di Darwin», e chi masticando un po’ di falsificazionismo si è fatto l’idea che la scienza non possa mai raggiungere un consenso generale attorno a evidenze corroborate oltre ogni ragionevole dubbio.

A proposito: che fine hanno fatto quelli che un paio di anni fa sostenevano che gli umani avevano cavalcato in groppa ai dinosauri, che il Grand Canyon si era formato a causa del diluvio universale, che il darwinismo era morto e che non si sono mai trovati gli anelli mancanti dell’evoluzione? Sembravano così convinti e agguerriti. Eppure non è uscito un solo articolo scientifico degno di questo nome a conferma di simili idiozie, non un solo accenno di dibattito nelle sedi qualificate, nessun intervento accettato nei convegni internazionali della comunità scientifica di riferimento, e chiaramente nessuna novità empirica a sostegno di quelle scempiaggini. Nulla di nulla, ovviamente. Fiato e inchiostro sprecati, mentre gli scienziati facevano scoperte formidabili sull’albero di discendenza delle molteplici specie umane. Il richiamo alla «libertà di espressione» nel caso dell’antievoluzionismo è semplicemente ridicolo.

Allo stesso modo, quando all’interno di una cornice scientifica coerente si sviluppano confronti tra ipotesi diverse è segno che una disciplina è in salute e in rapido avanzamento, non certo in crisi. Oggi infatti non abbiamo soltanto inedite risposte a vecchi quesiti – come nel caso dell’affascinante scenario qui proposto da Giorgio Manzi e Fabio Di Vincenzo per spiegare l’evoluzione del linguaggio – ma anche e soprattutto nuove domande, che fino a qualche anno fa sarebbero state impensabili. E ciò dovrebbe seppellire ogni altro dibattito di retroguardia, noiosamente privo di qualsiasi interesse. Chiediamoci invece perché siamo rimasti l’unica forma umana sul pianeta, e perché così di recente. Che fine hanno fatto tutti gli altri? Li abbiamo estinti noi oppure ancora una volta siccità e glaciazioni hanno fatto la loro parte? Come è stata la convivenza con altri umani, i cui pensieri e le cui emozioni – ci racconta Juan Luis Arsuaga – sono oggi perduti per sempre come lacrime nella pioggia? Quali abitudini avevano, come vedevano il mondo, come comunicavano?

E ancora, esiste una connessione causale tra il fatto che siamo rimasti soli e lo svolgersi delle successive espansioni di Homo sapiens, con il contemporaneo sviluppo dell’intelligenza simbolica e il completamento del tratto vocale che permette il linguaggio articolato, come suggeriscono qui Philip Lieberman e Robert McCarthy? Il legame tra la nostra creatività mentale di specie parlante e l’estinzione di tutti gli altri sembra paradossale, ma illumina quella che da sempre è stata la radicale ambivalenza del comportamento umano. L’«ondata finale» della nostra specie – come ipotizzano Zenobia Jacobs e Richard G. Roberts – è forse legata agli episodi di contrazione e di espansione demografica riscontrati in Africa intorno a 60-80 mila anni fa, e dunque anch’essa sarebbe riconducibile in ultima analisi al modo in cui fattori geografici e climatici hanno inciso sulla sopravvivenza di piccoli gruppi umani. In tal caso persino la nascita della mente umana moderna in Homo sapiens sarebbe il frutto di molteplici esplosioni «punteggiate» di innovazione culturale in popolazioni umane distinte, sballottate in Africa da eventi ecologici su larga scala. Un’altra storia di ghiacci, di mari, di deserti, di correnti oceaniche e atmosferiche.

Il tempo e il caso raggiungono tutti

Fin qui le domande scientifiche, che richiedono risposte sperimentali e nuovi modelli. Ma esistono anche grandi domande filosofiche che diventano ineludibili. Come cambia la nostra visione del «posto dell’uomo nella natura», interrogativo che Thomas H. Huxley si poneva nel 1863 avendo a disposizione nemmeno un millesimo delle conoscenze paleoantropologiche di oggi? La radicale contingenza storica e geografica dell’evoluzione umana, lungi dal consegnarci a un’insensatezza nichilistica, ci restituisce al contrario un rinfrancante e concreto senso di appartenenza alle dinamiche fisiche ed ecologiche di un pianeta attivo, che proprio in virtù della sua instabilità ha posto le condizioni per la nostra comparsa. La gratitudine per questa possibilità è pari alla consapevolezza della finitudine e della fragilità del nostro destino, il che non può che portarci a un atteggiamento di umiltà nei confronti di un sistema naturale che conosciamo solo in parte e che ciò nonostante abbiamo già devastato. Anziché estrarre forzatamente dalla natura appelli morali e leggi di comportamento, potremmo onorare la nostra specificità di creatori di norme morali per condividere un maggiore rispetto verso le generazioni a venire.

Contingenza significa leggere in modo nuovo il significato evolutivo delle diversità umane, antiche e presenti, e insieme la profonda unità storica dell’umanità, come propongono nei loro articoli qui David Abulafia e Marco Aime. Contingenza significa anche accettare l’idea che non esistano valori «assoluti» in termini evolutivi (l’intelligenza? la complessità? la socialità?), bensì sviluppi relativi di singole specie, ciascuna unica a suo modo, in un contesto di pluralità, fino a tempi recentissimi. È questo pluralismo relativistico che permette di avvicinarsi davvero alla comprensione di che cosa possa aver significato l’esistenza di forme umane «diversamente sapiens», come propone Arsuaga nella sua ricostruzione «dal punto di vista dei Neandertal». Archiviamo dunque la vana ricerca degli elementi di superiorità o di eccezionalità di Homo sapiens, o come si suole dire il suo «salto ontologico», e concentriamoci sui fattori di unicità e di novità che in un contesto di continuità naturale e di contingenza ci hanno reso umani a modo nostro.

La posta in gioco è alta, perché si tratta di una normalizzazione naturalistica in campo umano: cadono le grandi eccezioni dell’evoluzionismo antropologico, in primis la linearità del progresso, mentre i presunti misteri inavvicinabili, come l’evoluzione del linguaggio e della mente, sono sempre più cinti d’assedio da indizi empirici rilevanti. In aggiunta, il fatto interessante è che questa normalizzazione non sembra per nulla riconducibile a un’impresa «riduzionista», come spesso si paventa. Semmai il contrario.

È proprio dai nuovi studi sull’evoluzione umana che si evince l’impossibilità di ridurre la spiegazione a un solo livello prioritario (per esempio genetico, o anche generalmente biologico) dal quale estrapolare poi tutto il resto. Per capire la storia naturale umana occorre oggi fare interagire strati differenti di analisi, laddove i livelli di organizzazione più alti presentano proprietà autonome e non deducibili interamente dai livelli più bassi, per quanto esse restino ancora interamente naturali. Bisogna far convergere per la prima volta schemi provenienti dalla paleo-climatologia, dall’ecologia, dalla geologia, dalla paleontologia, dalla genetica, dall’anatomia comparata, dall’archeologia, dalla linguistica, dall’evoluzione culturale, e da molte altre competenze nelle scienze naturali e nelle scienze umane. E così si capisce che chi agita lo spauracchio del «riduzionismo» ha semplicemente il problema di giustificare l’inserimento del sovrannaturale dove non ve n’è alcun bisogno.

L’estrema perifericità della condizione umana, sul terzo pianeta di un sistema solare ai margini di una galassia come tante, va accolta nella sua tragica bellezza. È un’occasione di emancipazione: dalle ingannevoli consolazioni finalistiche, e soprattutto dagli officianti di tutte le Chiese che pretendono di addomesticare la storia per giustificare il presente. Anche in quel 21 dicembre 2012 e nella sbiadita attesa millenaristica del suo esito si nasconde il rifiuto psicologico dell’idea che il cosmo non abbia alcun senso né alcuna direzione o escatologia, e che «noi umani» – come scriveva Stephen J. Gould, scomparso dieci anni fa – «abitiamo questo pianeta senza una ragione specifica né uno scopo stabilito dalla natura». I figli dell’asteroide e della Rift Valley sono restii a convincersi, come invece lo era nel IV o III secolo a.C. l’ignoto estensore del Qohelet (9,11), che sotto il sole «il tempo e il caso raggiungono tutti». Nessuno ha saputo dirlo meglio di Leopardi nelle Operette morali, in quel «Dialogo della natura e di un islandese» in cui la prima, matrigna e indifferente, apostrofa il secondo: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? […] se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei».