SCIENZA E RELIGIONE di Francesco Primiceri |
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La separazione tra scienza e religione segna la nascita della modernità. Con la modernità la natura cessa di essere un mondo di eventi soprannaturali per diventare un regno governato da leggi, dalle quali le speranze, le intenzioni e i sogni degli esseri umani sono definitivamente estromessi. È un regno la cui comprensione richiede uno sguardo spassionato, freddo e disincantato dai miti e dalle narrazioni religiose. Insomma, l’era moderna inizia quando al sacerdote subentra lo scienziato. Per cogliere i punti salienti di questo passaggio, affronteremo la questione riguardante la nascita e lo sviluppo delle ideologie religiose nelle diverse fasi della società umana, a partire dalla comunità primitiva fino all’età moderna e contemporanea.
Introduzione La religione «non è altro che il riflesso immaginario, nella testa degli uomini, di quelle forze esterne che dominano la loro esistenza quotidiana». Ciò era quanto affermava F. Engels nell’Antidühring. Ma le idee, una volta nate, agiscono e reagiscono sulla realtà ambientale da cui hanno avuto origine tanto da apparire ‘autonome’ dal contesto da cui provengono. In primo luogo sono i fenomeni della natura che si presentano all’uomo come forze cieche, misteriose, potenti, che egli cerca di influenzare con il gesto, il rito e la preghiera, e che lentamente finisce col personalizzare, conferendo loro attributi a propria immagine e somiglianza. «La paura ha creato gli dèi»: così Lucrezio nel De rerum natura coglie in sintesi tutta una serie di dati sulla psicologia dell’uomo primitivo. Come le categorie del ‘divino’ collegate ai fenomeni naturali possono essere accettate come espressione primordiale della sacralità, così, con il sopraggiungere di nuovi rapporti sociali, che dominano l’uomo con la stessa apparente necessità ed imprevedibilità dei fenomeni naturali, può essere accettata anche la radice sociale delle ideologie religiose. Quando cambiano le condizioni di vita degli uomini e i loro rapporti sociali, cambiano anche le loro concezioni, le loro idee, la loro coscienza. Così è stato nel passaggio dalle prime comunità primitive alle strutture fondate sulla schiavitù, e poi dall’età antica alla società feudale, quando le vecchie religioni del Mediterraneo furono soppiantate dal Cristianesimo. Così è stato all’epoca della nascente borghesia, quando alla religione cattolica dominante si contrapposero le idee della riforma protestante, dell’illuminismo, della libertà di coscienza. Cambiamenti ancora più radicali si stanno verificando nell’attuale post-modernità, soprattutto a causa dello sviluppo del pensiero scientifico e tecnologico, foriero di nuovi sviluppi economico-sociali.
La comunità primitiva La ‘consapevolezza’, qualità tipica dell’uomo, esisteva nel nostro antenato di Cro-Magnon o nell’uomo di Neanderthal? E nell’uomo di Giava? E nell’uomo di Solo? E nello Ziniantropo? E nell’Australopiteco? A quale punto è comparsa in un essere la capacità di guardare dentro se stesso? Non troviamo una ragione per negare che ciò è avvenuto molto lentamente, attraverso la graduale evoluzione delle strutture cerebrali. Porsi questi interrogativi è d’obbligo, perché non possiamo esimerci dalla responsabilità di una riflessione su noi stessi, sul nostro futuro, sulla nostra storia passata. È accertato che per tutta l’età che ha preceduto l’epoca glaciale, le varie specie di homo, tra loro coeve, hanno vissuto in minuscoli gruppi, di dieci-dodici individui. Non c’erano né capi né legami di dipendenza sociali precisi e probabilmente esisteva la promiscuità sessuale. L’economia consisteva soltanto nella pratica dell’appropriazione e non della produzione. Non è azzardato pensare che in questa lunga fase le diverse specie di homo non potevano ancora possedere una piena coscienza delle relazioni con i propri simili e con la natura, in modo da pensarle in una qualche forma di credenza religiosa. Possiamo definire questa fase come pre-religiosa.
Nel periodo che si estende dal paleolitico inferiore fino all’età del bronzo, nel terzo millennio avanti Cristo, la comunità primitiva trova un primo ed importante fattore di coesione attraverso forti legami di parentela, di sesso e di età. È naturale che anche la religione in questa antichissima fase della vita associativa sia basata su legami analoghi, i quali vengono trasferiti dal clan originario ad un mondo di rapporti irreali e fantastici, nei quali si esprime la debolezza del gruppo di fronte alla natura e la sua incertezza del domani. Ben presto, quasi impercettibilmente, anche l’animale o la pianta di cui il gruppo si nutre vengono considerati come il progenitore, l’antenato, espressione e garanzia della sua coesione, oggetto di sacra venerazione. Questo legame misterioso, quasi biologico, di parentela, di affinità di sangue e di gruppo, è espresso dal termine totem, o totam (espressione tratta da un vecchio dialetto parlato da una tribù pellirosse nordamericana della regione dei Grandi Laghi), e significa “l’affine del fratello”, o “della sorella”, il”consanguineo”. Possono essere totem: l’orso, il lupo, il cinghiale, alberi da frutta, le querce, il sole, la luna, le pietre, le montagne, ecc.
Prima di procedere ad una più particolareggiata descrizione di questa fase antichissima dello sviluppo della religione, è necessario sbarazzarsi di una tendenziosa tesi volta a giustificare la religione come un qualcosa di indipendente dalle condizioni reali di vita dei gruppi primitivi, pronosticando per essi un “momento” più elevato della loro vita spirituale, attraverso l’uso della magia, precedente la fase religiosa. La tesi del Frazer, secondo la quale un’età della magia ha preceduto quella della religione, nell’evoluzione dell’umanità, è oggi abbandonata da quasi tutti gli studiosi della società primitiva e questo è merito soprattutto della scuola “funzionalistica”, il cui massimo esponente è stato Bronislaw Malinowski. Inoltre, è inammissibile, se si vuole stare sul terreno scientifico, un’opposizione tra religione e superstizione, giacché ogni culto racchiude in sé azioni di carattere magico e quindi di per sésuperstizioso: le preghiere, da quelle dei primitivi a quelle delle religioni attuali, costituiscono una forma di pressione sul mondo esterno, secondo le norme di una tecnica ingenua ed illusoria.
Nelle sue origini, dunque, la pratica della magia non si distingue affatto dalla religione, anzi si confonde con essa. È vero che all’inizio la magia non ha ancora una caratterizzazione sociale, nel senso che nella comunità primitiva tutti i componenti possono tentare di “far forza” sui fenomeni naturali; ben presto, però, la magia tende a localizzarsi in alcuni individui, o sulla base dell’età o perché si ritiene che siano dotati di poteri particolari. Le facoltà magiche, una volta entrate nella vita sociale, si mantengono e si articolano in forme diverse. E’ precisamente questo il carattere inconfondibile dell’ideologia religiosa. Nel momento in cui appare il primo “mago”, nasce con sé la nozione di “sacerdote”. Non tutti gli studiosi di storia delle religioni, però, concordano sull’idea che il totemismo sia stata la forma originaria della religione, al più lo considerano una forma elementare di classificazione del clan. Essi propendono a favore della tesi secondo cui la credenza religiosa prende inizio dal “culto dei morti”.
In realtà, la pratica di seppellire i morti è antichissima e risale agli albori della preistoria, ma non implica necessariamente la credenza nell’anima del defunto. La distinzione tra materia e spirito, e quindi tra anima e corpo è ancora sconosciuta alla comunità primitiva. Infatti, i dati forniti dall’archeologia preistorica e dalle ricerche etnologiche confermano che l’uso di seppellire i morti risponde ad una sola esigenza: quella di assicurare al defunto la continuità di un bisogno materiale. Prevale, perciò, una concezione ingenuamente materialistica della natura, della vita e dei rapporti sociali. La morte stessa si presenta come il prolungamento della vita, grazie all’intervento di vari fattori fisici: la colorazione in rosso, simbolo del sangue dello spirito vitale, la deposizione di oggetti d’uso e di mezzi di lavoro. Non esiste ancora l’idea di “spirito” contrapposta alla “materia”. L’intervento del dualismo anima-corpo avviene successivamente quando nuovi rapporti di produzione rendono possibile il dominio di alcuni gruppi sugli altri. Il dualismo è, perciò, il riflesso dello sdoppiamento che si è prodotto nel modo di vivere degli uomini, ed è allo stesso tempo il segno della nascita di una nuova esigenza: soddisfare in un’altra sfera, in un altro mondo o in un’altra vita, quelle aspirazioni che le ingiuste condizioni sociali non permettono più di assicurare. Nasce il ‘soprannaturale’.
Dal totem al dio personale E’ proprio a partire dall’idea di totem che col tempo si svilupperà il culto degli animali, dei vegetali e dei fenomeni naturali che condizionano la vita quotidiana dell’uomo. Anche etimologicamente, l’idea di culto è legata alla pratica della coltivazione della terra e presuppone una società nella quale i rapporti di produzione sono già basati su una forma rudimentale di agricoltura e su una particolare divisione del lavoro, specialmente tra uomini e donne. A questo stadio della comunità primitiva si collega la preminenza sociale della donna. È l’età del matriarcato. Nell’ambito di un agglomerato più largo, i termini di clan e di tribù presuppongono già un tipo di organizzazione sociale più complesso, diversi gruppi umani si specializzano nella cattura di un determinato animale e là dove il singolo dipende dagli altri per procurarsi il cibo, l’animale cacciato finisce col far parte del gruppo stesso, diventando così il simbolo, il protettore, l’antenato. Attraverso complicate cerimonie, il legame biologico con il totem lentamente si trasforma in un legame immaginario tra il membro del gruppo e il suo mitico progenitore. Da questa esperienza prende piede quello che sarà il “culto degli antenati”, che presuppone già un grado molto alto di differenziazione sociale. Sotto la forma di “culto dei padri” tale pratica aveva avuto largo sviluppo a Roma, portando alla venerazione delle divinità domestiche: i lari, i mani. Come culto della famiglia imperiale si è mantenuto a lungo nello scintoismo giapponese.
È molto probabile che la cura riservata all’animale-totem abbia favorito il sorgere dell’allevamento e dell’addomesticamento di certi tipi di erbivori e di carnivori, necessari anche per le cerimonie magiche propiziatrici della caccia e per il pasto rituale, che culminava in una specie di comunione collettiva. Con il consolidarsi dell’agricoltura, i culti ispirati al totemismo subiscono una significativa decadenza, e alle danze magiche propiziatrici per la cattura della preda subentrano i riti di fertilità, i culti fallici e vulvari, che non hanno ancora aspetti orgiastici di promiscuità sessuale, ma di fecondazione e di fertilità dei campi. In questa fase dello sviluppo sociale, l’uomo sente di trovarsi in condizione di dipendenza con le manifestazioni atmosferiche, che accompagnano ed influenzano il suo lavoro. Il totem trasporta sempre più la residenza dalla terra nell’alto dei cieli, delle nubi, delle montagne. Si incomincia, quindi, a credere nell’esistenza di forze personalizzate, che presiedono allo svolgimento della vita e della società. Siamo di fronte ad un nuovo processo: la trasformazione dell’animale-totem nell’animale-dio, il quale può proteggere, ma può anche fare del male, perciò deve essere placato e neutralizzato. Ma accanto a queste raffigurazioni magico-rituali, si sviluppa anche l’idea di una potenza misteriosa, che circonda l’intero agglomerato sociale e risiede in quegli oggetti e strumenti di lavoro di cui tutti quotidianamente si debbono servire.
La credenza religiosa, a questo punto, non è più esclusivamente materiale, ma si manifesta sempre ed esclusivamente nei corpi materiali. Qui ritroviamo quello che nel linguaggio delle tribù melanesiane viene chiamato il mana, cioè un potere impersonale e temibile, che circonda l’universo e risiede nelle pietre, nelle piante, in certi animali, nelle armi, nei corpi dei guerrieri e più tardi soprattutto nei capi-tribù. Si pensi al manitù, al wakan delle tribù pellirosse del nord-America, al kami dei giapponesi, al brahaman dell’induismo, al misterioso el degli ebrei o ai numina dei romani, potenze impersonali amorfe, disperse nella natura intorno all’uomo. Siamo ancora in uno stadio anteriore alla comparsa della credenza negli spiriti. Spiriti e folletti, angeli e demoni appaiono nell’ultimo periodo della comunità primitiva, quando nuovi strumenti di lavoro aprono la via ad una produzione meno legata alle esigenze della cooperazione. Non è più la comunità tutta intera, ma un membro di essa, dotato di mezzi e privilegi particolari, che appare come il “produttore”, il creatore di determinati utensili e di nuove condizioni di vita. Al semplice rapporto di dipendenza biologica si sostituisce lentamente il concetto di subordinazione e di dipendenza sociale. Il totem, pur conservando i segni distintivi della sua origine animale, vegetale o naturalistica, assume aspetti sempre più vicini a quelli di un capo tribù, si umanizza e con il passare del tempo si trasforma in “idolo”. Questo è un punto nodale dello sviluppo dell’ideologia religiosa: il totem finisce di essere tale per diventare un dio.
Sacerdoti e monarchi Domandarsi quale sia la più antica delle religioni nazionali ha un valore molto relativo, in quanto lo sviluppo religioso segue un percorso similare agli abitanti della valle del Nilo in Egitto, delle valli tra il Tigri e l’Eufrate in Mesopotamia, nella vallata del Fiume Giallo in Cina. Il villaggio dell’ultima fase dell’età della pietra si trasforma lentamente in borgo soprattutto grazie alla scoperta e alla lavorazione di alcuni metalli per la produzione di strumenti decisivi per le nuove esigenze della vita agricola. Si resero necessarie forme di lavoro cooperativo, come ad esempio la costruzione di grandi opere di irrigazione in Egitto per rendere più fecondo il terreno e salvaguardarlo dalle inondazioni incontrollate. Il lavoro cooperativo favorì il sorgere di un potere centrale e di un apparato tecnico e politico qualificato per dominare masse innumerevoli di uomini asserviti per eseguire le grandi opere. È soprattutto il ricorso alla guerra, a partire dagli inizi del IV millennio a.C. da parte delle prime monarchie accentratrici e delle aristocrazie sacerdotali, la nuova strategia per ottenere manodopera schiavista a buon mercato.
Anche quando i primi borghi vennero unificati in vere e proprie città-Stato e poi in monarchie di tipo teocratico, essi conservarono sempre nei simboli religiosi e nei riti popolari il ricordo della fase iniziale dell’evoluzione dell’umanità, basata sul totemismo e sul culto degli animali. Non è a caso che le più antiche divinità del pantheon egiziano si presentano quasi sempre sotto l’aspetto di animali: il falco(Oro), il montone (Khmen), il bue (Apis), l’ariete (Amon o Ammone a Tebe, Osiride a Mendes, nel delta del Nilo), lo sciacallo (Anubi), il gatto (Bast), il serpente (Seth), ecc. Ma il passaggio dal totemismo alla religione di un’età più avanzata si manifesta soprattutto quando appaiono, come in Egitto, animali sotto forme umane: feticci a figura d’uomo e a testa di animale, o viceversa. Con la comparsa al vertice della società del capo, del padrone, del sacerdote, del monarca, il totem lascia in modo definitivo il posto al dio personalizzato. Lo sviluppo storico dei primi centri civici si ripercuote fedelmente anche sulle vicende delle loro divinità protettrici; sono molto frequenti, infatti, i casi di divinità che si sottomettono a quelle dei conquistatori o si fondono con esse, scambiandosi a vicenda riti ed attributi. La religione assume così una funzione strutturale: giustificare l’esistenza di precisi rapporti di sudditanza tra gli uomini.
Ed a proposito dello stretto legame esistente tra l’evoluzione delle caratteristiche delle divinità e le trasformazioni politiche dello Stato, è importante fare riferimento all’evoluzione della teologia egizia quando comincia a presentarsi nella forma di “monoteismo solare”. Essa è il massimo riflesso della monarchia centralizzata nel periodo del massimo splendore della XII dinastia (2000-1800 a.C.): un unico signore sulla terra, un unico dio nel cielo; le altre divinità assumeranno un ruolo subordinato, molto simile a quello degli angeli e dei santi nel cattolicesimo. Del resto, un vero e proprio monoteismo allo stato puro si è affermato solo in un secondo momento. Gli Ebrei, considerati a torto monoteisti per eccellenza, arrivarono, è vero, alla concezione di un solo dio nazionale, ma credevano nell’esistenza reale delle divinità degli altri popoli, quali Marduk dei Babilonesi e i Baal dei Fenici. Di questa riforma religiosa a tendenza monoteistica ci resta un documento letterario di eccezionale interesse: l’Inno al Sole. La divinità viene esaltata come unica e sovrana, creatrice di tutto ciò che esiste, in modo da ricordare alcuni inni del Vecchio Testamento, soprattutto il salmo 104, la cui somiglianza con l’inno egiziano è davvero sorprendente.
Lo stesso vale per il dio Marduk, insignificante e piccola figura del pantheon assiro-babilonese, il quale, dopo la conquista di Hammurabi del territorio mesopotamico, assunse il titolo di “signore del mondo”. Etimologicamente Marduk significa “torello al sole” e c’è senza dubbio nel nome l’eco delle due precedenti fasi, quella totemica e quella naturalistica. Una tavoletta cuneiforme del 1800 a.C. ci presenta il nome delle diverse divinità come altrettante funzioni e attributi del dio Marduk: «Nergàl è il Marduk della guerra, Enlil è il Marduk del governo, Nrbo è il Marduk del commercio, Adad è il Marduk della pioggia…». Non si tratta di una rivendicazione di fede monoteistica, ma del riconoscimento liturgico del prevalere di un singolo dio sugli altri, sulla base di quanto è avvenuto tra i vari gruppi umani in lotta per il potere. Più tardi, quando l’impero babilonese cadrà nelle mani degli Assiri, il loro dio nazionale Assùr verrà posto alla testa delle divinità dei popoli assoggettati e proclamato “dominatore del mondo”. Nella storia delle religioni non troviamo mai un politeismo a tendenza ugualitaria, in cui cioè gli dei abbiano lo stesso potere. Di solito le divinità appaiono catalogate secondo una rigida scala gerarchica, riflesso della divisione sociale esistente tra gli uomini. Per celebrare le divinità locali, la casta sacerdotale compilò e rielaborò diversi poemi teologici: primo tra essi, quello della creazione e della caduta originaria, che porta con sé la morte. Al centro di questi racconti, di cui sono state tramandate diverse versioni, si colloca Marduk, vincitore del mosto Tiamàt, che esisteva prima di tutte le cose, personificazione del caos fatto di tenebre e di acqua, come nei primi versetti della Bibbia. Da qui gli Ebrei hanno desunto quasi tutti i loro miti, armonizzandoli con la loro dottrina e trasferendoli quasi immutati nella tradizione giudaico-cristiana. Il passaggio al credo di un solo dio, risultato finale soprattutto delle religioni abramitiche, non sarà altro che l’ulteriore legame che unirà le varie caratteristiche della divinità con le nuove forme istituzionali della società. Le radici del monoteismo vanno perciò cercate non nei processi di razionalizzazione o di spiritualizzazione, ma nelle condizioni reali degli uomini e nella loro transizione da un tipo di società all’altro.
Crisi dell’ideologia religiosa: il pensiero scientifico La religione può essere studiata, oltre che dal punto di vista storico, anche come fenomeno naturale. La biologia evoluzionistica, l’antropologia e le neuroscienze possono oramai aiutarci a capire come nascono le fedi e come sorgono in noi l’empatia, la paura e il sentimento religioso. Possiamo oramai considerare superata un’antica opinione secondo la quale spetterebbe alla scienza il compito di spiegare il ‘come’ delle cose, e alla religione quello più ambizioso di spiegare il ‘perché’, ovvero le grandi questioni dell’essere. Le grandi domande tradizionali delle religioni (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo) hanno già trovato risposte adeguate nella scienza, senza il bisogno di postulare dio. La scienza può aiutarci a creare un nuovo racconto sul mondo, forse non altrettanto poetico e potente come quelli tradizionali, ma certamente più oggettivo e più veritiero, libero dai miti e dalle narrazioni delle religioni. Insomma, al sacerdote subentra lo scienziato, senza alcuna possibilità di compatibilità tra i due.
I riferimenti alla religione che faremo in seguito non esprimeranno giudizi moralistici relativi alla dimensione spirituale di essa, ma contenuti cognitivi, perché pensiamo che è proprio lì che nasce il conflitto tra scienza e religione, precisamente nei sistemi di credi e non in rapporto al valore letterale e simbolico dei cosiddetti testi sacri. Quali sono le ragioni profonde che si nascondono dietro il conflitto tra scienza e religione che ha segnato la crisi dei credi delle ideologie religiose? Una di queste riguarda certamente il declassamento degli uomini dal loro ruolo centrale compiuto dalla scienza. Storicamente, infatti, la scienza ha declassato gli esseri umani facendo perdere loro il ruolo centrale che avevano nella creazione. Con Galilei si scopre che la Terra, palcoscenico del grande dramma cosmico di peccato e salvezza, non è più al centro del sistema solare; poi, si scopre che il sistema solare non è al centro della creazione, ma solo uno di tanti nella nostra galassia; poi si è dimostrato che la nostra galassia non è unica e che l’universo ha miliardi di galassie che si estendono in tutte le direzioni. Ancora, la teoria dell’inflazione caotica presenta un quadro plausibile, anche se non del tutto consolidato, che il nostro big bang sarebbe un episodio in un multiverso molto più vasto.
Un’altra ragione decisiva che ha determinato la crisi delle ideologie religiose è nella possibilità che ha la scienza di rendere le spiegazioni religiose non più necessarie. Un tempo la teologia naturale cercava nel mondo osservabile le prove di un intervento divino, ed in particolare, si argomentava che solo un tale intervento poteva spiegare le capacità meravigliose degli esseri umani. Ebbene, noi tutti sappiamo che queste argomentazioni sono state invalidate dalla teoria dell’evoluzione attraverso la selezione naturale di Darwin; inoltre, il lavoro di tanti biologi evoluzionisti moderni mostra che anche gli aspetti della vita umana che sembrano più spirituali, come il nostro amore reciproco, il senso di lealtà, di onestà, di carità, hanno spiegazioni che si giustificano in termini di evoluzione non pianificata e realizzata attraverso la selezione naturale. Si osserva storicamente che da quando l’uomo si è appropriato del metodo scientifico ha sempre più sentito diminuire il bisogno di supporre un intervento divino nelle sue argomentazioni. È significativa l’opinione espressa da Laplace a Napoleone, quando lo scienziato spiegò il funzionamento del sistema solare secondo le leggi di Newton. Napoleone chiese: «Qual è in tutto questo il posto di Dio?»; la risposta fu secca: «Sire, non ho bisogno di questa ipotesi».
In questo modo, attraverso i metodi ordinari della scienza, si possono spiegare fenomeni come, ad esempio, la comparsa della vita sulla Terra, che per le religioni è una prova della benevolenza divina. Ovviamente questa sarebbe una buona argomentazione se la Terra fosse l’unico pianeta abitato dell’universo, ma sappiamo perfettamente che con i miliardi di pianeti che ci sono è naturale che alcuni di questi si prestano ad ospitare la vita. La stessa osservazione vale anche per le costanti della natura, le quali possono assumere valori diversi da un universo all’altro all’interno del multiverso, così come sostengono le teorie cosmologiche. Possiamo, pertanto, bene immaginare che nel multiverso in continuazione si verificano dei ‘big bang’ i cui risultati possono essere universi con costanti della natura molto vicini al nostro, creando così le giuste condizioni ad ospitare la vita. Questo quadro teorico offre, dunque, una spiegazione naturale del fatto che sono solo le leggi della natura a condizionare la comparsa della vita. È come dire: le leggi della natura incatenano le mani di dio. Anche queste osservazioni di ordine cosmologico sono un ulteriore punto significativo di criticità delle ideologie religiose; ma ce n’è un altro, anche se non sempre messo in giusta evidenza, che segna un conflitto ancora più profondo tra scienza e religione: il metodo usato da entrambe per avvicinarsi alla verità. La religione si affida fortemente all’autorità che può essere quella dei testi sacri, così come avviene nell’Islam sunnita e nel Cristianesimo protestante; oppure quella di un insieme di testi e di leader religiosi ispirati divinamente ad interpretarli, come nell’Islam sciita e nel Cattolicesimo romano. Nulla di tutto questo esiste nel mondo della scienza. Certo, anche nella scienza esistono gli eroi, viene riservato a loro un enorme rispetto, ma non sono autorità a cui ci si rivolge per la soluzione di problemi scientifici. Si è appreso da loro e si sono fatti progressi, ma nella scienza non esistono profeti, esistono gli eroi, non i sacerdoti.
Un’altra differenza nell’approccio verso la verità consiste nel fatto che la scienza respinge in ogni modo la tentazione di vedere le cose secondo un punto di vista più piacevole; una gran parte del pensiero religioso, invece, sembra non fare altro che questo: credere in un aldilà, per far fronte all’idea che la vita continui dopo la morte. Una cosa però la scienza non può fare, come del resto non può farla la religione: giustificare se stessa. Già questo era stato capito molto tempo fa dal filosofo David Hume quando sosteneva che non è possibile usare argomenti scientifici per giustificare la scienza stessa, per evitare, appunto, che si entri in un discorso circolare. Siamo, allora, di fronte ad una scelta morale sui metodi che ci sono offerti per avvicinarci alla verità: quello religioso, che richiede riverenza per l’autorità, ricerca di cose o credi che rendano felici, e quello scientifico, che richiede invece un atteggiamento più austero, più autonomo, teso inflessibilmente verso la verità.
Nel corso di questa discussione abbiamo potuto cogliere come la religione sia un fenomeno storico e come le sue ideologie, che si sono susseguite nel corso del tempo, esprimano in termini metafisici quelli che sono stati i reali rapporti di produzione tra gli uomini. Siamo, perciò, convinti che il conflitto scienza-religione fa parte di un conflitto molto più ampio, che coinvolge anche la sfera politica, perché è evidente che, nel momento in cui un dettame religioso diventa tassativo e vincolante, automaticamente il cittadino viene espropriato della sua sovranità per essere consegnata a dio. Diciamo senza mezzi termini: la sovranità di dio è incompatibile con la sovranità dell'uomo, base della democrazia. Viene infine in mente una domanda banale, la cui risposta dovrebbe essere scontata, ma necessaria: questa pretesa sovranità di dio è il frutto della sua volontà o il frutto, invece, della volontà di chi pretende di conoscere la volontà di dio e di parlare in suo nome? Il mondo ha bisogno di svegliarsi dal lungo incubo delle ideologie religiose e ogni contributo che la scienza dà al suo indebolimento deve essere accolto con giubilo. Alla fine, chissà, potrebbe rivelarsi come il maggiore contributo della scienza alla civiltà.
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