Breve storia dei dizionari calabresi

 

dal  presunto  Massara  a  Rohlfs

 

di

Michele  De  Luca

 

 

 

 

 
 
 
 
 

Prefazione

La storia della lessicografia calabra si suole dividere in due momenti separati: prima e dopo Rohlfs, a significare l'importanza che il filologo tedesco ha avuto negli studi glottologici sulla Calabria. Questa linea di demarcazione ha segnato uno sviluppo ineguale delle ricerche lessicali: una prima fase caratterizzata da studi condotti prevalentemente da emeriti studiosi quali Dorsa, Cedraro, Scerbo, Morisani, Mele, Accattatis, Malara, Galasso, Marzano, Longo e tanti altri; una seconda, sorta sulla scia dell'interesse suscitato dalla pubblicazione, nel 1977, del Nuovo dizionario dialettale della Calabria di Rohlfs, costituita, prevalentemente, da appassionati del dialetto, spesso, referenti del "tedesco" durante le sue peregrinazioni in Calabria.

 

Il presente studio, che non ha la pretesa d'essere esaustivo, traccia, per sommi capi, la storia dei dizionari e vocabolari calabresi    fino    alla    pubblicazione    di    quello    di    Rohlfs.

 

Senza nulla togliere ai meriti, indiscussi, del noto glottologo, si è cercato di dimostrare come, la ricerca lessicografica in Calabria, tra la fine dell'Ottocento e la metà del secolo successivo, sia nata "adulta", avendo essa stessa evidenziato una impostazione metodologica rilevante, irrobustita dal confronto tra linguisti e studiosi di folklore (Corso, R. Lombardi Satriani, ecc.).

 

La pubblicazione del Dizionario di Rohlfs ha rappresentato un salto di qualità poiché ha dato ai Calabresi la consapevolezza di poter disporre di uno strumento lessicale che li accomunava: non più singoli studi areali, ma un unico dizionario che accorpava le numerose parlate locali, contrassegnate dall'autore con specifici acronimi dei paesi e città della Calabria!

Prof. Michele De Luca

 

 

 

I pionieri della dialettologia calabra.

La storia della lessicografia calabra è contornata da insoliti, quanto inaspettati episodi, venuti alla luce quando, ormai, a distanza di tempo, ogni intervento sanatorio, atto a recuperare i manoscritti persi o pubblicati in parte, era ormai impossibile da realizzare. Si suole ricordare, per significare gli esordi, il Vocabolario calabro-italiano, relativo al dialetto di Tropea, redatto, sul finire del Settecento da Gaetano Massara, avvocato, scrittore dialettale e socio dell'Accademia degli Affaticati, con lo pseudonimo di Furibondo. A parlarne è Benedetto Stragazzi: «Il dialetto tropeano ha molta analogia col siciliano; con qualche ragione quindi fin dal 500 Stefano Bizantino ascriveva Tropea alla Sicilia, sull'idea che in origine quella città era stata colonizzata dai Siculi, i quali passarono di poi nell'isola di Sicilia. In quel dialetto fu scritto per la prima volta da Gaetano Massara (1746-1823), accademico fra gli Affaticati, ed avvocato; il quale lasciò manoscritti varii componimenti poetici in tropeano, e sono: "I Tignosi", cantata recitata nell'Accademia nel 1783 - "La Camarra degli Accademici Affatigati [così nel testo, n. d. r.] di Tropea", recitata all'Accademia nel 1822 - "La Giannelliade" e la "Franchineide", ch'è una mescolanza di versi calabri ed italiani. Di queste poesie la "Giannelliade" e la "Franchineide", ancorché siano poco conosciute, erano riputate in Tropea per le più belle cose, che il facile poeta italiano e vernacolo avesse composte. Scrisse anche nel nativo linguaggio sonetti e canzoni senza conto; nelle quali rime spicca la lepidezza, il brio, la facilità e la meravigliosa spontaneità del nostro poeta. Si narra che il Massara perdesse nelle rovine di Tropea, diroccata dal tremuoto dell'83, un vocabolario calabro-italiano, cui egli aveva scritto poco prima di quell'anno».

Un'altra testimonianza, ripresa dal periodico La Calabria. Rivista di letteratura popolare diretta da Luigi Bruzzano, è riportata da Luigi Accattatis: «La Camarra, Accademici, jeu cantu/Pirchi mil'ordinau lu Prisidenti:/Cari cumpagni, chi mi stati accantu/Scusati si vi parru fora denti:/Lu Calavrisi si duna lu vantu,/Quandu parra, mu parra apertamenti;/Jeu, dunca, a lingua di lu meu paisi/L'incammarati mo fazzu palisi». E gli "incammarati", commenta l'Accattatis, «sono tutti quei disgraziati mariti, torturati dal dovere che loro impongono la società, le leggi matrimoniali e i capricci delle mogli. Si direbbe che Gaetano Massara sia proprio un fervente apostolo del celibato». E conclude l'Accattatis, riprendendo, senza menzionarlo, l'indicazione scritta anni prima dallo Stragazzi: «si narra che il Massara perdesse nelle rovine di Tropea, diroccata dal tremuoto dell'83, un vocabolario calabro-italiano, cui egli aveva scritto poco prima di quell'anno».

Nulla sappiamo di codesto vocabolario, neppure se sia realmente esistito, giacché la generica indicazione dello Stragazzi, quel «si narra», appena accennato, lascerebbe intendere che l'autore abbia preso per vero qualcosa che non aveva mai veduto! Certo è che il terremoto del 2-15 febbraio 1783 aveva causato, in Calabria, la morte di 29.515 persone, la distruzione di interi paesi e, forse, il seppellimento, sotto le macerie, di quello che sarebbe stato, se fosse giunto fino a noi, il primo vocabolario areale della regione!

Inedito fu anche un altro vocabolario, quello di Francescantonio Badolati, di cui rimane solo una citazione, fatta da Salvatore Mele: «Vocabolario Calabro - Toscano composto dal Dottor Francescantonio Badolati, 1824. Il lavoro è inedito, e si conserva dal gentile e valoroso prof. F. J. Pignatari».

Incompleta fu pure l'opera lessicografica di Leopoldo Pagano, come   attesta,   ancora   una   volta,   lo   stesso   Accattatis,   «Il Vocabolario Calabro dell'ab. Pagano, ideato già sin dal 1838 e dal dotto compilatore promesso sin dal 1845, fu cominciato a scrivere non prima del 1859. Per cortesia di quel cuor d'oro, che è Vincenzo Pagano, scrittore e filosofo insigne, prof. Pareggiato nella R.  Università di Napoli, ho potuto vedere il primo ed "unico" fascicolo di questo Vocabolario, che si compone di pag. 41 e va fino alla voce "abientu". Il lavoro sarebbe riuscito davvero prezioso se si fosse potuto seguire, perché alla vasta tela onde era ordito si aggiungeva il merito di uno studio comparativo tra il dialetto nostro e il napolitano, in correlazione con altri vernacoli e con la lingua parlata italiana». E la voce "abientu" (meglio trascriverla con la doppia "b"), riposo, per un brutto tiro del destino riservò, a codesta opera, un eterno riposo!

Una quarta, e non meno sfortunata conclusione, ebbe, alcuni anni dopo, nel 1862, il Vocabolario calabro-mammolese-italiano, scritto da un medico, il calabrese Francesco Mujà. Stampato, a fascicoli, a Reggio Calabria, ebbe vita brevissima: uscirono solo 160 pagine6. L'ultima voce registrata, ancora una volta per un beffardo destino, fu la parola "disiju", desiderio, quasi a significare quell'anelito, irrealizzato, dell'opera rimasta definitivamente incompiuta!

Un quinto tentativo, mai giunto a compimento, fu nell'Italia post-risorgimentale, il Vocabolario Calabro e l'annessa Grammatica calabra, opere scritte da Vincenzo Padula, autore di una poliedrica produzione letteraria (composizioni poetiche, saggi a carattere antropologico e culturale, testi teatrali) e, soprattutto, ideatore e animatore del periodico letterario Il Bruzio, edito a Cosenza tra il 1864 e il 1865. I contemporanei non ebbero l'opportunità di vedere codesto vocabolario, pubblicato postumo. Si deve a John B. Trumper, e ai suoi collaboratori, la cura dell'edizione critica del manoscritto, e la stampa di una parte di esso, le lettere "A-e". Si tratta di un'opera di estremo interesse, che accresce, se mai ve ne fosse bisogno, le competenze letterarie del nostro autore, il suo stile inconfondibile, la sua tenace persistenza nel registrare lessico, folklore e tradizioni del popolo calabrese. Il manoscritto di Padula è rimasto purtroppo incompleto, ma dal testo a stampa si può intuire che l'autore volesse realizzare un vocabolario che oggi potremmo definire etno-linguistico. E aggiungiamo, inoltre, che codesto lavoro debba esser visto come un naturale proseguimento con le inchieste giornalistiche portate avanti dal Padula nelle pagine della rivista II Bruzio, da lui diretta, dove le originali e accattivanti osservazioni sulla società calabrese sono sempre accompagnate da indagini storico-economiche, peraltro ancor oggi attuali, da racconti popolari, espressioni idiomatiche, folklore.

Il progetto paduliano di un vocabolario così concepito sembra, tutto sommato, il più adatto a rappresentare la variegata moltitudine delle parlate calabresi, giacché in una materia così articolata, i modi di dire, i proverbi e le espressioni del parlato, le costruzioni lessicali "povere" - come le manifestazioni del folklore - rafforzano la valenza semantica del testo, anche avvalendosi di voci dell'italiano. Sostiene John Trumper: «Gerhard Rohlfs escludeva dichiaratamente dal proprio dizionario le parole che hanno pronuncia identica all'italiano. Tale procedimento dà per scontata l'esistenza o meno di un dato termine nel dialetto. Se, per esempio, può essere cosa evidente - e non è detto - che il lemma "carru" è lo stesso lemma dell'italiano "carro" ma con la desinenza in "-u" propria del calabrese, non è affatto scontata l'esistenza o meno di un lemma "carru" all'interno del dialetto calabrese, per chi, magari digiuno di calabrese, si trovi a consultare il suo dizionario. Inoltre, non riportando le voci uguali all'italiano, egli esclude a parità di significante, slittamenti semantici che potrebbero essere rilevanti. Proprio riguardo a ciò Padula ha modo di osservare:

Noi diciamo "traino" al carro, "trainiere" al carrettiere e "carro" al biroccio. Il biroccio è vettura con parapetti ai fianchi, e con due ruote, tratta da buoi, guidata da un boattiere [...]. Il carro è più grande, con timone lunghissimo, e due sole ruote assai alte».