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CELIBATO |
Perché i Preti non si possono sposare? |
Come è stata manipolata la Bibbia |
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Nella Lettera a Tito, in una sezione intitolata «condizioni dei vescovi», san Paolo scrisse la seguente istruzione: «Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato: il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati. Il vescovo infatti, come amministratore di Dio, dev'essere irreprensibile: non arrogante, i non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto» (27 1, 5-7).
Imporre ai membri del primo clero la condizione - certamente ispirata da Dio - di essere «mariti di una sola donna» non poteva significare, come oggi comanda la Chiesa cattolica, che dovevano essere celibi, ma piuttosto, che fossero sessualmente fedeli a una sola donna, cioè, a quella con la quale si fossero sposati. Una norma morale che, come documenta la storia ecclesiastica del primo millennio, non è stata granché rispettata dal clero cattolico: da papi, vescovi e sacerdoti, che sono stati sposati e nemmeno da coloro che sono rimasti formalmente celibi. Per di più, il presunto e inappellabile magistero divino dell'Antico Testamento, espresso nel capitolo intitolato «leggi circa la purezza abituale dei sacerdoti» della Legge proclamata nel Levitico - la cui validità è stata ratificata da Gesti in Mt 5, 17-18 - prescrive: «Sposerà una vergine. Non potrà sposare né una vedova, né una divorziata, né una disonorata, né una prostituta; ma prenderà in moglie una vergine della sua gente. Cosi non disonorerà la sua discendenza in mezzo al suo popolo; poiché io sono il Signore che lo santifico» (Lv 21, 13-15). Sembra, dunque, che Dio si sia preoccupato persino di legiferare sulle caratteristiche che dovevano avere le spose dei sacerdoti.
Come ho già segnalato in un libro precedente occupandomi del tema del celibato, questa norma, priva di ogni fondamento evangelico, e imposta soltanto nel XVI secolo, ha costituito una delle principali preoccupazioni della Chiesa nel periodo che va dall'ultimo Concilio celebrato fino al giorno d'oggi. Nel Concilio Vaticano II, Paolo VI - il quale non ha avuto il coraggio di rimettere in discussione la questione del celibato come avevano chiesto molti partecipanti, che difendevano la possibilità d'opzione, sentenziò - in PO (16) - «Il Sacro Sinodo esorta inoltre tutti i Presbiteri, i quali hanno liberamente abbracciato il sacro celibato seguendo l'esempio di Cristo e confidando nella grazia di Dio, ad aderirvi con decisione e con tutta l'anima e a perseverare fedelmente in questo stato sapendo apprezzare questo dono meraviglioso che il Padre ha loro concesso e che il Signore ha così esplicitamente esaltato (cfr Mt 19, 11), e avendo anche presenti i grandi misteri che in esso sono rappresentati e realizzati».
In primo luogo, salta agli occhi come la stessa redazione di questo testo sia in sé contraddittoria. Se il celibato è ciò che qui si afferma, cioè uno stato o una condizione legale nella quale si trova un soggetto, lo sarà ugualmente il matrimonio, ed entrambi, in quanto stati, possono e devono essere scelti liberamente da ogni individuo. In secondo luogo, il celibato non può essere un dono o carisma, in quanto, da un punto di vista teologico, un carisma è sempre dato non per dare un profitto a chi lo riceve ma alla comunità di appartenenza. Cosi i doni biblici di guarigioni o profezie, per esempio, erano dati per curare o per guidare gli altri e non per trarre benefici propri. Se il celibato fosse un dono o carisma, lo sarebbe per essere dato in beneficio a tutta la comunità di credenti e non solo ad alcuni privilegiati. Dunque, tutti i fedeli, e non solo il clero, dovrebbero essere celibi. È una fallacia argomentale ormai consolidata sostenere che il celibe sia più disponibile ad aiutare gli altri. Del matrimonio, invece, si può dire che ha una funzione nel contribuire al mutuo benefico della comunità.
Ad ogni modo, in nessuno degli elenchi del Nuovo Testamento –Rm12, 6-7; I Cor 12, 8-10 o Ef4, 7-11 - si menziona il celibato. È perciò evidente che non si tratta di un dono o carisma anche se così lo vorrebbe la Chiesa. Per qualsiasi studioso obiettivo delle Scritture è palese che, come afferma il teologo cattolico Julio Lois, «nel Nuovo Testamento non esiste alcun vincolo diretto ed essenziale tra il ministero [sacerdotale] e il dono (carisma) del celibato». D'altra parte, la presunta esaltazione del celibato attribuita a Gesù, secondo i versetti di Mt 19, 10-11, è dovuta a un'esegesi errata, prodotto di una traduzione scorretta del testo greco -Bibbia dei Settanta - nel riportarlo alla versione latina (Vulgata).
Il Gesù che appare in Mt 19, 10 risponde a un gruppo di farisei che l'interroga a proposito del divorzio. Gesù afferma l'indissolubilità del matrimonio, intesa, però, come una meta da raggiungere, come la perfezione alla quale si tende, non come una mera legge da imporre. I farisei gli contestano che la Legge mosaica permette il divorzio ed egli, a sua volta, risponde: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un'altra commette adulterio» (Mt 19, 8-9).
Dato che i versetti che seguono sono stati mal tradotti nella versione della Bibbia Cei, verranno qui trascritti secondo il senso corretto delle versioni più autorizzate dei Vangeli: «Gli dissero i discepoli: Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi. Egli rispose loro: Non tutti possono arrivare a questo estremo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati cosi dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi possa arrivare cosi lontano lo faccia»5 (Mt 19, 10-12).
Nel testo, che presenta sfumature fondamentali che non compaiono nella classica Vulgata, e nemmeno nelle traduzioni cattoliche della Bibbia, quando Gesù afferma che «Non tutti possono arrivare a questo estremo» o, «non tutti possono con ciò» secondo altre versioni, e «Chi possa arrivare cosi lontano lo faccia», fa un chiaro riferimento al matrimonio, non al celibato (che è l'interpretazione della Chiesa cattolica). Le parole ton logon toùton si riferiscono, in greco, a ciò che precede (la rigidità del matrimonio indissolubile, che provoca il commento dei discepoli: «non conviene sposarsi»), e non a ciò che viene dopo. (Perciò quello che si afferma come un dono è il matrimonio, non il celibato e, conseguentemente, contro la posizione ecclesiale ufficiale, non si esalta il secondo al di sopra del primo, bensì il contrario .
La famosa frase «altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli» (Mt 19, 12) usata dalla Chiesa cattolica come prova della raccomandazione o consiglio evangelico del celibato, non può mai essere tale per due ragioni: il tempo verbale di un consiglio di questa natura, e in quel contesto sociale, dev'essere il futuro, non il passato o il presente. Infine, poiché tutta la frase riferita agli eunuchi si dà nello stesso contesto e tempo verbale, dovrebbe essere considerata un consiglio evangelico anche la castrazione forzata - «ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini» - cosa che, evidentemente, sarebbe una sciocchezza.
Non vi è perciò la benché minima base evangelica per imporre il celibato obbligatorio al clero. Le prime normative che riguardano la sessualità - e sussidiariamente il matrimonio/celibato dei clerici - si producono quando la Chiesa, grazie all'azione dell'imperatore Costantino, comincia a organizzarsi come un potere socio-politico terreno. Più i secoli passano e più vengono manipolati i Vangeli originali, e più forza acquista il celibato obbligatorio, uno strumento chiave per dominare la massa clericale.
Fino al Concilio di Nicea (325) non vi era alcun decreto legale in materia di celibato. Nel canone 3 è stato stipulato che «il Concilio proibisce, con severità, che vescovi, sacerdoti e diaconi, cioè tutti i membri del clero, abbiano con sé una persona dell'altro sesso, eccezione fatta per madre, sorella, zia o donne al di sopra di ogni sospetto»; ma in questo stesso concilio non si è proibito ai sacerdoti già sposati di continuare nella loro normale vita sessuale.
Decreti simili si sono susseguiti lungo i secoli - senza ottenere che una buona parte del clero lasciasse le concubine - fino a che arrivò l'onda repressiva dei concili Lateranensi del secolo XII, destinati a strutturare e a rinvigorire definitivamente il potere temporale della Chiesa. Nel I Concilio dì Laterano (1123), papa Callisto II condannò nuovamente la vita di coppia dei sacerdoti e ratificò il primo decreto che obbliga esplicitamente al celibato. Poco dopo, papa Innocenzo II, nei canoni 6 e 7 del Concilio di Laterano (1139), continuava sulla stessa linea - così come il suo successore Alessandro III nel Concilio III di Laterano (1179) - lasciando fissata la norma che avrebbe dato luogo all'attuale legge canonica sul celibato obbligatorio... che la maggioranza del clero continua a ignorare.
Era cosi frequente che i clerici avessero concubine, che i vescovi hanno stabilito la cosiddetta “renta di putane”, ossia una somma di denaro che i sacerdoti dovevano pagare al vescovo ogni volta che trasgredivano la legge sul celibato. Avere amanti era cosi frequente, che molti vescovi hanno preteso la renta di putane da tutti i sacerdoti della loro diocesi senza eccezione. I Chi difendeva la propria purezza era comunque obbligato a pagare perché il vescovo sosteneva che era impossibile non avere rapporti sessuali di alcun tipo.
A questo stato di cose ha cercato di porre rimedio il tumultuoso Concilio di Basilea (1431-1435), che prescrisse la perdita delle entrate ecclesiastiche a chi non abbandonasse la concubina dopo essere stato avvertito e aver subito un ritiro momentaneo dei benefici. Con la celebrazione del Concilio di Trento (1545-1563), papa Paolo III - protagonista di una vita dissoluta, che ha favorito il nepotismo all'interno del suo pontificato, e padre di diversi figli naturali - fece applicare in modo definitivo le disposizioni disciplinari di Laterano e proibì, inoltre, l'ordinazione di maschi sposati.
Al di là dei pettegolezzi, dall'epoca dei concili di Laterano a oggi, niente di sostanziale è cambiato nei riguardi di una legge così ingiusta e carente di fondamento evangelico - e perciò eretica - com'è quella che stabilisce il celibato obbligatorio per il clèro.
Papa Paolo VI, nell'enciclica Sacerdotalis coelibatus (1967), non ha lasciato alcun margine di dubbio quando ha stabilito dottrine di questo tenore: «Il sacerdozio cristiano, che è nuovo, può essere compreso soltanto alla luce della novità di Cristo, pontefice sommo ed eterno sacerdote, il quale ha istituito il sacerdozio ministeriale come reale partecipazione al suo unico sacerdozio» (n. 19). «Il celibato è anche una manifestazione d'amore verso la Chiesa» (n. 26). «Il suo particolare impegno nella propria santificazione trova infatti nuovi incentivi nel ministero della grazia, e nel ministero dell'eucarestia» (n. 29). «Troverà la gloria di una vita in Cristo» (n. 30). «Fonte di fecondità apostolica» (n. 31 e 32). I dati della ricerca che riporta il mio libro “La vida sexual del clero” dimostrano che queste considerazioni di Paolo VI non si riferiscono alla realtà in cui vive la stragrande maggioranza del clero cattolico. «Il motivo vero e profondo del celibato consacrato - stabili Paolo VI sempre nella Sacerdotalis coelibatus - è l'elezione di una relazione personale più intima e più completa con il mistero di Cristo e della Chiesa, per il bene di tutta l'umanità; in quest'elezione, i più elevati valori umani possono certamente incontrare la più alta espressione.» E l'articolo 599 del Codice di Diritto canonico, con linguaggio sibilino, stabilisce che «il consiglio evangelico della castità assunto per il Regno dei cieli, che è segno della vita futura e fonte di una più ricca fecondità nel cuore indiviso, comporta l'obbligo della perfetta continenza nel celibato».
Tuttavia, la Chiesa cattolica, trasformando un inesistente «consiglio evangelico» in legge canonica obbligatoria, è rimasta lontana anni luce dal potenziare ciò che Paolo VI riassume come «una relazione personale più intima e più completa con il mistero di Cristo e della Chiesa, per il bene di tutta l'umanità». Anzi, al contrario, ciò che si ha ottenuto la Chiesa con l'imposizione della legge del celibato obbligatorio è uno strumento di controllo che gli permette di esercitare un potere abusivo e dittatoriale sui propri lavoratori. Una strategia fondamentalmente economicistica per abbassare i costi di mantenimento della sua squadra sacro-lavorativa e incrementare il proprio patrimonio istituzionale. Evidentemente, l'unica «umanità» che trae profitto da questo stato di cose è la stessa Chiesa cattolica.
Il carattere obbligatorio del celibato nel clero lo converte in una gran massa di mano d'opera a basso prezzo e ad alto rendimento, che favorisce una mobilità geografica e una sottomissione e dipendenza gerarchica assolute. Un sacerdote celibe è molto più economico di un altro che avesse il diritto di mettere su famiglia, in quanto, in quest'ultima ipotesi, l'istituzione dovrebbe almeno triplicare lo stipendio attuale del sacerdote per fare in modo che questi possa condurre un tenore di vita materiale sufficiente a mantenere un nucleo familiare. Dunque, quando si sente parlare del rifiuto della gerarchia cattolica alla possibilità di matrimonio dei sacerdoti, in realtà ciò che si vuole negare è un incremento delle spese di personale.
Ad ogni modo, il matrimonio dei sacerdoti potrebbe essere possibile anche senza incrementare il bilancio della Chiesa. Basterebbe che i preti, o gran parte di loro, come si fa in altri credi cristiani, si guadagnassero da vivere attraverso una qualsiasi professione civile ed esercitassero anche il ministero sacerdotale. In pratica, ciò che fanno da anni, e con la piena approvazione delle comunità dei fedeli, delle loro famiglie e di loro stessi, le migliaia di preti cattolici sposati che operano come tali in tutto il mondo. Ma la Chiesa cattolica respinge questa possibilità in modo tanto egoista quanto sbagliato sostenendo che il sacerdote che lavora nel mondo civile frutterà di meno alla sua istituzione.
All'interno del contesto cattolico, l'accettazione del celibato significa anche che il sacerdote passerà tutta la vita a dipendere dall'istituzione e, perciò, essa non si preoccuperà della sua formazione nelle materie civili. Ciò si ripercuote sulle sue possibilità d'indipendenza e sottomette ancora di più il prete alla volontà del suo unico ed esclusivo padrone. E così che si generano troppi e notevoli drammi umani mentre, al tempo stesso, cresce l'ignoranza e la mancanza di preparazione del clero.
Un altro vantaggio economico che la legge del celibato porta alla Chiesa cattolica è che la frustrazione vitale che subisce il sacerdote, per via delle carenze affettivo-sessuali e di altre cause di carattere emozionale, si traduce molte volte in una spinta verso l'accumulazione di ricchezze come parte di un meccanismo psicologico di compensazione. Inoltre, restando i sacerdoti obbligatoriamente scapoli, tutti o gran parte di questi beni andranno a ingrossare il patrimonio della Chiesa. Stessa sorte seguiranno i beni che ricevono in eredità dalle loro famiglie. Se i sacerdoti fossero sposati, la Chiesa cattolica non potrebbe disporre della loro eredità, in quanto i loro beni finirebbero, logicamente, nelle mani della moglie e dei figli. Per questo, e non per motivi morali, dal Medioevo a oggi la Chiesa ha deciso di dichiarare illegittimi i figli dei clerici, impedendo cosi loro qualsiasi possibilità di ricevere in eredità il patrimonio del padre.
In concili come quello di Pavia (1020) si arrivò a legiferare, nel canone 3, la servitù [schiavitù] alla Chiesa, in vita e beni, di tutti i figli di clerici. «Gli ecclesiastici non dovranno avere concubine - ordinava il canone 34 del Concilio di Oxford (1222) - altrimenti saranno puniti con la perdita del loro ufficio. Non potranno nominarle eredi, né i loro figli e, se cosi fosse, il vescovo userà queste donazioni a beneficio della Chiesa secondo la sua volontà.» L'elenco di disposizioni di questo tenore è esteso e accurato ed è stato fatto dalla Chiesa per assicurarsi i beni dei figli bastardi dei suoi sacerdoti. Così, dunque, anche se migliaia di preti abbandonano la Chiesa cattolica - circa centomila nell'ultimo quarto di secolo - la legge del celibato obbligatorio continua a essere molto redditizia per l'istituzione, in quanto continua a permettere un migliore sfruttamento di coloro che restano sotto l'autorità ecclesiale.
Il celibato obbligatorio è un meccanismo di controllo essenziale alla struttura clericale cattolica e, insieme con il culto della personalità del Papa e con il dovere d'ubbidienza, conforma la dinamica funzionale che rende possibile a un piccolo gruppo di 4.159 membri dell'episcopato - cioè, 149 cardinali, 10 patriarchi, 754 arcivescovi e 3.246 vescovi - controllare le vite private e il lavoro di 1.366.669 persone.
In una Chiesa cattolica come quella attuale, nella quale il livello di secolarizzazione e di decessi è di molto superiore a quello delle nuove ordinazioni e nella quale, per fare l'esempio spagnolo, l'età media del clero diocesano è di 61-62 anni e soltanto il 48% delle parrocchie esistenti ha un sacerdote residente, sembra ragionevole pensare che il papa che succederà a Wojtyla dovrà porsi urgentemente il problema dell'annullamento del decreto arbitrario e lesivo di Trento per stabilire il celibato opzionale, come chiedono, secondo le inchieste, i tre quarti del clero cattolico.
Tratto dal libro: “Verità e menzogne della Chiesa cattolica” di Pepe Rodrìguez
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