LA DEMOCRAZIA E' LAICA O NON ESISTE

La minaccia dell'integralismo religioso

Giovanni Sartori - Corriere della Sera - 22 ottobre 2005

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Nella mia oramai lunga vita di studioso sono stato molto stravagante, ho insegnato materie diverse e mi sono occupato di tutto un po', di argomenti molto vari. E' che sono un animale curioso. Ma nella mia stravaganza la democrazia, la teoria della democrazia, è stata un filo costante. In questa solenne occasione mi sento tenuto, allora, a tornare su questo antico e mai sopito amore.

Dalla seconda guerra mondiale in poi la democrazia, la liberal-democrazia, è stata in espansione; e la caduta del regime sovietico e della sua ideologia le ha aperto nuovi spazi di conquista. Ma mentre l'economia è davvero diventata globale (nel senso che l'economia di mercato ha davvero travolto la pianificazione economica collettivistica di tipo sovietico), i sistemi politici restano divisi, nel mondo, tra democrazie e no. Questa constatazione apre l'interrogativo sulla esportabilità della democrazia (in quale misura e a quali condizioni). Si intende che questo interrogativo presuppone che la democrazia nasca nella e dalla civiltà occidentale e che le cosiddette "democrazie degli altri" siano immaginarie (cosi come era immaginaria e truffaldina la nozione di democrazia comunista).

Ciò premesso, sul punto della esportabilità-diffusione della democrazia esistono - semplifico molto, s'intende - due teorie di fondo. La prima teoria è economicistica: è che la democrazia è ostacolata dalla povertà e che è correlata con il benessere. Storicamente non è stato così: la liberal-democrazia come demo-protezione, e cioè come sistema di libertà e di protezione costituzionale, è nata in società poverissime; e il liberismo istituisce lo Stato limitato, il controllo del potere e la libertà da (dallo Stato); niente di più e niente di altro. Ma oggi non è più così. Oggi alla demo-protezione si aggiunge un demo-potere che richiede demo-distribuzioni (di ricchezza). E in questo contesto la tesi degli economisti arriva a essere che se produci ricchezza, alla fine produci democrazia.

La tesi dei sociologi è più cauta. Nella versione classica di S.M. Lipset, "tanto più un Paese è prospero, tanto più è probabile che sostenga la democrazia". Si, certo. E' certo, cioè, che il benessere facilita la democrazia. L'incertezza, oggi, è se il benessere continuerà a crescere e se la guerra alla povertà (nel mondo) sarà davvero vinta. Personalmente ne dubito. In meno di un secolo la popolazione mondiale si è triplicata. Oggi siamo più di sei miliardi e cresciamo ancora di 70 milioni all'anno: tutti in Paesi poveri e prevedibilmente destinati a restare tali. Dal che mi limito a ricavare, qui, che la teoria economicistica non ci deve far dimenticare che la democrazia come sistema politico demo-protezione è un bene in sé e che è pur sempre meglio essere poveri "liberi" in libertà che non poveri in schiavitù.

La seconda teoria è culturale e di "visioni del mondo". Se è vero - come è vero - che la democrazia liberale nasce dal seno della cultura occidentale e in funzione della sua laicizzazione, allora ci dobbiamo aspettare che in giro per il mondo si imbatta in resistenze, e anche reazioni di rigetto, culturali. Si e no. La democrazia è stata esportata in Giappone con la forza delle armi, ma poi si è radicata. In India la democrazia è un lascito inglese, ma è stata pienamente adottata. Dunque, si danno esportazioni culturalmente improbabili che tuttavia sono riuscite.

Esiste però un'altra faccia della medaglia: quella della importazione (immigrazione) in Occidente di culture allogene. Qui il problema è di integrazione e la domanda è se gli asiatici, indiani, africani, arabi si integrano o no, accettano o no le istituzioni democratiche dei Paesi nei quali si accasano. Anche a questo proposito si può rispondere talvolta sì e talvolta no. Ma per essere più precisi occorre chiarire cosa si intende per integrazione. Intanto, integrazione non è assimilazione. Gli indiani, giapponesi, cinesi, trapiantati in Occidente mantengono la loro identità culturale (e in questo senso non si lasciano assimilare) e tuttavia si sono integrati nella città democratica e ne sono divenuti buoni cittadini. E in questo esito non c'è nessuna contraddizione. Perchè l'integrazione necessaria e sufficiente è soltanto l'adesione ai principi etico-politici della democrazia come sistema politico. Niente di più, ma nemmeno niente di meno.

Allora, qual è l'elemento, il fattore, che rende rigida e pressoché impermeabile, una identità culturale? A me sembra indubbio che sia il fattore religioso e più precisamente il monoteismo, la fede in un Dio unico che per ciò stesso è l'unico vero Dio. Questo monoteismo può essere neutralizzato e bloccato - come sistema di dominio teocratico - dall'insorgere di una società laica che separa la religione dalla politica. Questa separazione è avvenuta nel mondo cristiano dal 1600 in poi. Ma non è avvenuta nell'Islam, che era e resta (culturalmente) un sistema teocratico onnicomprensivo (di tutto mescolato insieme).

Dunque, volontà del popolo o volontà di Dio? Finché prevale la volontà di Dio, la democrazia non penetra né in termini di esportazione (territoriale) né in termini di interiorizzazione ( ovunque il credente si trovi). E il dilemma tra volontà del popolo e volontà di Dio è, e resterà - per rubare un titolo a Ortega y Gasset - il tema del nostro tempo.

                                                                                                    (Giovanni Sartori - Corriere della Sera - 22 ottobre 2005)